Appollaiato sulla pala del ventilatore lampadario, gli piaceva guardarmi nei diversi abbracci che mi decidevo di assecondare. Se avesse avuto la capacità poi di descriverli, di estrarre taccuino e penna, ieri sera avrebbe parlato di una danza quasi sincrona nell’allontanarsi di due persone distese a letto insieme, trovatesi lì quasi per caso, per una volontà che a guardarci bene, neppure si vede.
Guardiamo un film?
Volentieri.
Ma facciamolo a letto…
Tu sei lungo di gambe, il divano è proporzionato a gambe corte femminili.
Lui che si spaventa e io che lo rassicuro dicendogli che non lo voglio scopare, o almeno non adesso, che si sappia.
Io cerco lui, lo abbraccio da dietro, gli tocco le gambe, lo stomaco, il basso ventre, il petto, gli bacio l’interno delle scapole fino al raggiungimento del giusto grado di eccitazione che ci fa allontanare mentre le sue mani, dietro la schiena, afferrano le mie di gambe. Una paura che sposta due corpi che sostanzialmente hanno un’anima da donna. Io che mi allontano, mi giro dandogli la schiena. Lui che mi rincorre, si gira verso di me e mi trascina contro di sé, intreccia le sue gambe alle mie, appoggia il pube a contatto con i miei glutei che non riescono a trattenersi dall’accomodarsi, come su una comoda poltrona. Le sue mani sulle mie cosce, le dita che si intrecciano tra la mia mano che lo cerca e la sua che mi tocca, la sua bocca sul mio collo. Fermi. Immobili. Finché non si resiste, ci si muove, ci si respira a lungo e ci si sposta. Mi chiedevo, e credo che da sopra la pala ventilatore lampadario questa domanda abbia già una risposta, se ha senso questo ballo. Se debba esistere. Cosa sia. Cosa possa rappresentare per me. Che tipo di rincorsa, quale ricerca, quale lato da completare rappresenta. Vale la pena di restare ancorati? La risposta potrebbe riassumersi nella confessione d’amore recitata tra le righe di una telefonata, sulle scale, di schiena al mondo nel quale appaio talmente meravigliosa che mi tocca detestarti.