È vero. Sono io che parlo con Hermes attraverso le sue applicazioni scrupolosamente scaricate sul cellulare.
È vero. Sono io che gli dico dove c’è neve, quando è meglio stare in casa, quando Veronica è in ovulazione per cui “attento al merlo”; se c’è chi sta importunando la gatta, se in rifugio ci sarà il gulasch per cui è consono tenersi la voglia oppure muoverla altrove.
È vero. Antonella lo sostiene ironica, ma è vero.
Sono io che parlo a Hermes, perché Hermes mi piace molto.
Combatte la frustrazione di una vita greve, nella quale per la maggior parte del tempo sente il peso e vorrebbe scuoiarsi rivestendosi di altra pelle, oziando. E a me l’ozio è sempre piaciuto molto. Non credo sia stato creato con l’origine, come molte altre cose, ma è una novità evolutiva che mi fa impazzire. Se ci fosse stata, ai miei tempi, altro che Getsemani, altro che sepolcro, altro che croce. Mi sarei imboscato da qualche parte a guardare le forme delle nuvole che cambiano con il vento, come facevano Serena e Fabio in terrazza la prima mattina che hanno deciso di innamorarsi dell’alba. In effetti devo dir loro che questa cosa, del cielo, del prendersi del tempo per guardarsi davvero, è un po’ che non succede, è una sana abitudine che devono riprendere.
L’amore è anche fatto di niente, dicono.
L’ozio costringe le persone, più o meno prolungatamente nel tempo, a contemplare soffitti, stipiti, vetri, finestre senza tende, tetti, neve, sinfonie di calorifero, code di gatto muoversi al ritmo di sinfonie di calorifero, l’oblò della lavatrice, il pane nel forno, la torta che si solleva sempre nel forno non necessariamente insieme al pane, il formaggio esplodere nel microonde, la goccia del lavandino, la forma del divano, una pagina colorata, una pagina scritta, una pagina di politica, i social network, le foto sui social network, i profili di sconosciuti sui social network, l’abbigliamento del popolo del social network, le mani fisse sulla tastiera qwerty, il computer spento, il computer acceso, Michela che piange alla fermata Moscova, insomma un sacco di cose e altre ancora.
In effetti ora che ci penso, qualche vita fa, vidi Michela piangere molto spesso alla fermata della metro di Moscova. E mi piaceva guardarla piangere. Diventava meravigliosa con le gote paonazze e gli occhi colmi di acqua a bagnarle le ginocchia. Uscita dal vagone si sedeva sulla poltrona in plastica con la mano a sorreggersi le tempie e gli occhi liberi. Piangeva. Lui non la voleva mai. Qualunque lui fosse. In realtà era lei che non voleva nessun lui. Smise di piangere quando incontrò Antonella. La Antonella di questa storia. Una volta le vidi, meno vite fa di quando vidi spesso Michela piangere alla fermata Moscova, scendere alla fermata Moscova insieme e andare a piedi verso Gioia.
La cosa che più mi piace contemplare, rigorosamente al contrario perché così ormai è la mia vita, sono le persiane in legno chiuse; tipo che nell’appartamento di fronte a Serena e Fabio, le persiane sono sempre chiuse. Sempre, ogni tanto sono aperte e si intravede una finestra con tenda e tra la finestra e la persiana aperta un paio di scarpe. Perlomeno, la persona che vive lì ha i piedi. Sono cose da sapere per limitare la fantasia.