«Fanculo qualsiasi tecnica, ciò che importa è l’anima di chi suona e non la qualità dello strumento».
Era questa la frase che continuavano a ripetersi i quattro amici nelle interminabili ore passate sulla panchina del parchetto.
La loro, quella segnata dalle scritte e dai loghi di tutti i gruppi che ascoltavano. Era dietro una siepe e questo le donava una certa privacy, indispensabile per fumarsi una canna in santa pace, lontani da occhi indiscreti.
Filosofia punk, berretti girati, skate, camicie a scacchi, anfibi, birra e canne per adolescenti ormonali in cerca di futuro con l’incubo del cantiere o della fabbrica dopo il diploma.
Si trovavano lì nelle prime ore del pomeriggio e ci restavano fino all’ora di cena.
A turno uno di loro andava a prendere da bere al circolo anziani che distava qualche decina di metri dal parco e aveva dei prezzi molto bassi.
Dopo cena vi tornavano, ogni tanto qualche socio del quartiere si univa a loro per qualche chiacchiera.
Raramente, ma molto raramente, intorno a quella panca gironzolava qualche ragazza.
Era sempre così la loro estate, ogni tanto un pomeriggio in piscina o un giro a prendere qualche disco, soprattutto i primi giorni, quando racimolavano un po’ di soldi dalle paghette per la promozione.
Adolescenza da quartiere, non quella patinata delle riviste o delle estati da ricordare tutta la vita.
Una sera, mentre discutevano del nuovo disco acquistato da Ruggero e ascoltato, come sempre insieme, sul registratore portatile dopo averlo passato su cassetta, alla panchina Vincenzo ripeté la frase mantra. In quel momento ad Adamo girarono i coglioni e disse:
«Mi ha rotto il cazzo questa menata della tecnica e dell’anima, schiodiamoci da qui e facciamolo. Ora o mai più».
Raimondo si alzò in piedi con fare imperiale e mise una mano sulla spalla di Adamo, guardando gli altri due.
«Domani mattina alle otto da me, andiamo da mia nonna e cominciamo a ripulire il garage. Non dite che avete impegni perché tanto, a parte farci le seghe e ciondolare per casa al mattino, non abbiamo nulla da fare».
«Ok», risposero tutti gli altri.
La nonna di Raimondo era vedova e a casa sua c’era un fantastico garage vuoto che, con un paio di lavoretti, sarebbe diventato una fantastica sala prove.
L’idea di fare un gruppo girava da tempo, ma la pigrizia e il tedio continuavano a rimandarne la realizzazione. Avevano già il nome, Afta Epizotica, e il relativo logo disegnato da Vincenzo, i contenitori delle uova raccattati qua e là e il polistirolo rubato nei cantieri per l’insonorizzazione.
Ruggero aveva una chitarra classica che ogni tanto strimpellava e Adamo da bimbo era andato a lezione di batteria, gli altri due avrebbero dovuto tirare a sorte per chi avrebbe imbracciato il basso e chi preso mano il microfono.
La mattina successiva piombarono a casa di nonna Maria, che era un po’ la nonna di tutti perché era l’unica ad abitare in quartiere come loro e spesso, d’inverno, era luogo di rifugio al caldo.
Lei fu sorpresa di trovarseli in mezzo ai piedi così presto per loro: si alzava alle cinque tutte le mattine, con il fresco, e si occupava delle faccende e dell’orto.
Quella mattina si trovò a coordinare i lavori di pulizia del garage, che si protrassero fino a sera.
Che figata spaziale era diventato quell’anonimo garage pieno di polvere, svuotato dalle cianfrusaglie, ripulito e anche imbiancato in un giorno di duro lavoro, interrotto solo dalla penne al pomodoro gentilmente offerte da nonna Maria.
«Bello è bello, però è troppo bianco», disse Vincenzo.
«Domani veniamo a farci le scritte e attaccarci i poster», ribatté Raimondo.
Quella sera non uscirono, erano stanchi e ognuno rovistò nella propria camera in cerca di poster e adesivi da portare la mattina dopo.
Anche il giorno successivo fu passato a sistemare il garage. Ricoprirono le pareti con polistirolo e contenitori per le uova per insonorizzarlo e lo abbellirono con scritte sui muri, poster alle pareti e adesivi sulle porte.
Prima di sera il covo della band era pronto, mancava la strumentazione.
La sera si trovarono alla panca e decisero che il mattino successivo sarebbero andati al negozio di musica in città a vedere cosa c’era a buon mercato.
Si fumarono una sontuosa canna della buonanotte e ognuno si avviò verso casa.
Sognarono concerti memorabili, dischi strepitosi e milioni di fan adoranti fino a quando un boato, un rombo squassò il silenzio.
«Ruggero porcoddio spegni quella cazzo di sveglia e alzati che sono le cinque e devi andare in fabbrica».