Devo proprio raccontare questa cosa.
Facevano il banchetto, i Morandi. Ogni terza domenica del mese, al mattino, dopo la messa. Mettevano giù una tovaglia per terra, sopra una specie di montagnola fatta di asfalto e di sassi catramati rimasti lì dai lavori dei garage. L’aveva sollevata d’estate la ruspa, quella piccola, quella manovrata dal signore con la pancia sempre fuori dalla canottiera. Una volta lo abbiamo visto che beveva un bicchiere di vino rosso con la schiuma rosa sul balcone della signora Disingrini, la donna senza marito del secondo piano. Si parlavano vicini vicini, così vicini che non abbiamo capito come facesse lei a non sentire quanto puzzava, il signore della ruspa. Diceva mio papà di non farci caso a questa cosa, che la signora Disingrini era una che beveva spesso con gli uomini, nei bar del quartiere.
«Quella là», la chiamava mia mamma.
Il banchetto dei Morandi era come la Fiera, per noi piccoli. La montagnola dove mettevano giù la tovaglia l’avevo chiamata la “rupe”, perché da là sopra eri come sopra un palcoscenico, vedevi tutto il cortile a forma di ferro di cavallo, e sembrava un canyon di Tex Willer. Mancava solo il fiume Colorado River dentro, a scorrere come un serpente. Anche gli indiani, mancavano. C’era l’Alfa Romeo Giulietta Sprint nera del signor Catelli, in compenso. La parcheggiava sempre nel nostro canyon. Non sapevamo se facesse bene, perché una volta giocavamo a tirarci delle sassate in cortile e una sassata ha sfondato proprio il vetro della macchina del signor Catelli, che si è infuriato parecchio e ha sgridato suo figlio Paolo, perché era stato proprio lui.
E meno male, perché mio papà e mia mamma non ce li avrebbero avuti i soldi per pagargli il vetro dell’Alfa Romeo al signor Catelli. Forse nemmeno il papà e la mamma di Rebecchi.
Dice il mio orologio di Snoopy che sono le quattro, adesso. Non lo metto più, sono più grande. Lo tengo sul comodino. A quest’ora, mi ricordo, al condominio si poteva scendere giù in cortile a giocare. Io e Rebecchi passavamo tanto tempo insieme, suo papà Gino riparava cose e aveva la passione delle biciclette. Ci aveva sistemato due Grazielle, quelle con il portapacchi basso dietro, che uno ci poteva anche salire in piedi. Una arancione con le bolle bianche per Rebe, una verde pisello per me.
Eravamo sempre in giro, un po’ nel cortile a forma di canyon, un po’ su in strada, senza dirlo alle mamme. Giravamo nel quartiere, andavamo ai palazzoni delle strade intorno, dove c’erano altri cortili con altri bambini. Ci fermavamo ai cancelli, su in strada sui sassi bianchi, guardavamo giù da lassù chi c’era, cosa succedeva. A volte ci chiedevano di giocare con loro. Altre volte c’era da scappare a gambe levate.
In ogni cortile si giocava a qualcosa di diverso e in ogni cortile c’era un bambino che ci salutava da giù o che veniva fin sopra e si fermava con noi. Parlavamo della scuola, dell’oratorio o degli scout. Se c’erano delle bambine era più complicato, con le femmine non sapevamo di cosa parlare. In una discesa di Via Buoso da Dovara, con le aiuole di fianco e dentro delle rose brutte sulla terra secca, c’era questo bambino della Calabria che tutti chiamavano Nonno Pantera, non lo so perché. Era più piccolo, aveva sette anni, e diceva la effe al posto della esse.
«Quanti anni hai, Nonno Pantera?», gli chiedeva Rebe per scherzo.
«Fette!», rispondeva lui, e noi ridevamo.
Aveva sempre la candela al naso, d’inverno la teneva ghiacciata che scendeva in giù. Sua nonna, la nonna di Nonno Pantera, aveva i capelli grigi tutti esplosi, parlava una lingua che non capivamo e bucava sempre i palloni da calcio che finivano di là del muro, nel loro canyon. Sua nonna la chiamavamo La Strega.
Poi c’erano i palazzi dietro, si entrava da Via Ottolini, c’era una discesa bella larga e due cancelli grossi, nuovi, di metallo bello verniciato. Lì dentro c’erano dei bambini pericolosi, cioè, dei ragazzi più che altro. Uno si chiamava Tonino ed era grande più di noi e aveva sempre voglia di menare le mani. A volte scavalcava i muretti dei garage, camminava sulle tettoie piatte dove le mamme spesso andavano a stendere e scendeva nei palazzi vicini, anche nel nostro canyon, in cerca di vittime. Si muoveva con il suo gruppo di fedelissimi pards, come faceva Tex Willer coi suoi.
Avevano tutti dei nomi stranieri, Alan, Remì, Mitchell… Una volta questo Mitchell, che era uno coi capelli lunghi e sporchi e aveva sempre graffi di gatto addosso (anche se mio cugino più grande diceva sempre che erano graffi di ragazze) aveva visto Rebecchi far volare un Ufo Solar, una specie di sacco dell’immondizia gigantesco con sopra stampate delle immagini da film di fantascienza, che aveva comprato in edicola e che potevi gonfiare e portarti in giro per il cortile sospeso in aria, come un dirigibile.
Era saltato giù in mezzo a noi e aveva preso il filo dalle mani di Rebecchi, aveva tirato giù l’Ufo Solar e lo aveva strappato tutto. Poi aveva detto a Rebecchi di comprarne un altro, se aveva il coraggio. Invece Rebe si era messo a piangere, era salito in casa e aveva detto a sua mamma che da grande si sarebbe comprato direttamente un’edicola piena di Ufo Solar.
Diciamo che quegli anni di bambino in Via Ippocastani non sono stati sempre tranquilli, ecco. Il momento davvero più bello del cortile però era quando i Morandi facevano il banchetto, la terza domenica del mese. Massimo e Gianluca Morandi, i due ragazzi dell’ultimo piano della palazzina A. Il loro papà faceva un lavoro tipo professore, la loro mamma stava sempre in casa. Dai giubbini che avevano mi sa che loro, il vetro dell’Alfa Romeo del signor Catelli, avrebbero potuto ripagarlo. Forse guadagnavano tantissime lire col loro banchetto, era davvero una meraviglia. Dentro ci trovavi tutto quello che avevano accumulato da piccoli nelle loro camerette e che, crescendo, non usavano più per giocare. Su quella tovaglia tutta rotta, sempre quella, disponevano soldatini verdi e grigi, tra cui i miei preferiti, i lanciagranate col mortaio. Mamma mi aveva dato duecento lire il primo anno e avevo preso tre soldatini, fra cui il lanciagranate senza un braccio, perché mi piaceva immaginare che lo avesse perso durante un lancio preparato male… Poi i Playmobil vecchi del west e dei pirati, senza cavalli quelli del west e senza nave quelli pirati, perché a Massimo Morandi i cavalli piacevano e se li teneva in casa, e Gianluca Morandi, nella nave vascello Playmobil, ci teneva il materiale didattico per la scuola, lui andava alla prima classe superiore.
Rebecchi, il secondo anno, aveva comprato la Boing, una specie di palla ovale con le corde che ci potevi giocare in spiaggia. Impugnavi le due maniglie, aprivi con forza le due corde e, come su un binario, la palla ovale andava fin dall’altro giocatore, Massimo Morandi la chiamava proprio Boing, ma Gianluca Morandi, che era più grande e le cose le sapeva bene, diceva che si chiamava Zoom Ball… Era un gioco da spiaggia ma noi in spiaggia non ci andavamo mai così ci giocavamo in cortile.
Noi piccoli venivamo attratti dal banchetto come gli orsi dal miele, su quella tovaglia c’era ogni bendidio, tornavamo dalla messa a San Michele e passavamo almeno un’ora giù in cortile dai due fratelli Morandi, che erano poi anche molto simpatici e gentili. Anche mia mamma e mio papà dicevano che erano proprio gentili.
Poi è venuto il terzo anno, era l’inizio del 1981 e qualcosa è cambiato. Al banchetto, quando lo facevano, c’era solo Massimo. Meno roba, da solo non riusciva a portar giù tutto, doveva fare tanti viaggi su e giù con l’ascensore. Gianluca non lo si vedeva da un po’ e le mamme dicevano che la signora Morandi era preoccupata perché il figlio maggiore era sempre più magro. Anche Massimo Morandi era dimagrito molto, ma aveva sempre il sorriso gentile con tutti. Ma era come se una gigantesca nuvola avesse ricoperto il cortile, come se un’ombra fredda lo avesse ghiacciato.
Le nostre mamme non volevano più che andassimo in giro con le bici fuori dal cortile. All’oratorio anche, andavamo sempre con qualcuno adulto accanto. A scuola, fuori all’uscita, ci avevano impedito di prendere le bustine di figurine che alcuni ragazzi o signori distribuivano come avevano sempre fatto. Dicevano, alcuni più grandi, che se leccavi quelle figurine morivi, noi non capivamo. Girava questa parola: droga killer. Davvero noi piccoli non capivamo cosa stesse succedendo, ma l’aria era diversa.
Il pomeriggio di una di quelle domeniche di banchetto eravamo in cortile, io e i miei cugini. Aspettavamo Rebecchi per giocare a Guerra fra galassie, un telefilm che guardavamo tutti ogni giorno prima di cena. Io dovevo interpretare Ryu detto Cometa, mio cugino più grande era Ayato, detto Fantasma. Usavamo i manici delle scope delle nostre mamme come spade laser, ci avevamo disegnato sopra coi pennarelli Carioca i tasti e le levette, facevamo il verso del laser con la bocca. Mio cugino più piccolo era il più pazzo, lui voleva sempre interpretare i nemici, e ogni volta si definiva “robot + qualcosa” a seconda di dove generava il suo potere, non so, usciva da una pozzanghera, «Io sono il robot-acqua!», usciva da un’aiuola, «Io sono il robot-terra!», eccetera… A un certo punto Rebecchi era apparso nella porticina che, dalle cantine, sbucava nel cortile. Aveva la faccia di uno serio.
«Venite a vedere una cosa…», aveva detto. Anche la voce era seria.
Siamo entrati nelle cantine, tutti con in mano i manici laser di scopa, e siamo andati fino alla rampa delle scale interne, dove arrivava anche l’ascensore. Nel buio del vano scale, sul pavimento umido e nell’odore di muffa, c’era Gianluca Morandi, seduto per terra, con la schiena contro il muro. In un primo momento mi ero spaventato, perché era davvero magro magro. Poi mi ero avvicinato, volevo solo salutarlo. Mi guardava con due fessure bianche al posto degli occhi, e non diceva niente.
Aveva le maniche di camicia arrotolate, nel braccio infilata una siringa sottile, con dentro un pochino di liquido scuro, e accanto per terra un laccio, gettato molle come lui, abbandonato… Ci guardava e non diceva niente… Ricordo l’attimo di immobilità… Poi ricordo mio cugino piccolo che alza il manico, come spada, a protezione… Rebecchi ci aveva tirati via da lì, con le mani sulle spalle… Siamo arretrati nel corridoio fino al cortile… Usciti fuori non avevamo parole, non avevamo ben chiaro cosa avessimo visto, non eravamo ancora capaci di capire quella scena…
Giocammo a Guerra fra galassie e ricordo solo che non ci divertimmo.
Il mattino di quel giorno papà mi aveva comprato l’orologio di Snoopy, al banchetto. Massimo Morandi me lo aveva provato sul polso, «È di Gianluca», aveva detto col sorriso. La pila funzionava ancora, le lancette camminavano, era solo da regolare. Papà me lo aveva regolato, salutammo Massimo e salimmo a pranzo. Al pomeriggio noi piccoli avevamo poi visto Gianluca nel sottoscala. A cena non ne parlammo, nessuno di noi lo fece coi propri genitori. Non ne parlammo mai più, ma sapevamo che i grandi sapevano, lo capivamo. I grandi sapevano della grande nuvola che stava avvolgendo il quartiere e la città.
Gianluca Morandi fu trovato morto dalla sua mamma, qualche settimana dopo, nel bagno di casa. Aveva quasi diciassette anni. Neppure Massimo esiste più. Massimo Morandi fu trovato morto quasi un anno dopo, nella baracca di un amico di famiglia, in mezzo a un campo. La frequentava insieme al figlio degli amici e ad altri ragazzi dell’ambiente sportivo che bazzicavano. Aveva quasi la stessa età di Gianluca.
Massimo e Gianluca c’erano. Massimo e Gianluca esistevano. Massimo e Gianluca non esistono più, e tanti altri come loro. C’è una canzone che ascolto spesso, di un musicista americano. Mi ha regalato la cassetta mio zio Mauro. Credo che parli di questa cosa. Dice: «Ho visto l’ago, e il danno è fatto». Credo che anche questo musicista americano abbia visto un ragazzo con gli occhi bianchi.
I Morandi si trasferirono via dopo nemmeno un mese. E così pure noi, nel 1982, verso un quartiere periferico, lontano dal centro città, lontano dalle piazze ritenute più pericolose. Una villetta a due piani, una camera tutta per me, un fratellino in arrivo e il Mondiale di calcio da vincere in Spagna.
L’orologio di Snoopy è appoggiato sul comodino. Mi ricorda quelle ore, quella scena. Cammina ancora.