Ogni anno arriva il 30 dicembre, ogni anno da 19 anni.
Avevo 16 anni, all’epoca frequentavo un liceo che mi annoiava a morte, infarinature generiche su tante materie che mi lasciavano dentro un senso di insoddisfazione e mi toglievano ogni voglia di studiare.
Quando tornavo a casa da scuola passavo ore e ore a leggere i grandi classici, a tradurre i testi delle canzoni e suonare.
Già a quei tempi amavo starmene da solo e adoravo andare nelle case e cascine abbandonate, un po’ per spirito di avventura, un po’ per immaginare le vite che abitavano quegli spazi.
La maggior parte delle volte filava tutto liscio, qualche volta non esattamente.
Un paio di volte ho rischiato di sfracellarmi su di una vecchia scala, una volta ero stato rincorso da un barbone e un’altra avevo incontrato un ragazzo di 25 anni, Omar.
Omar l’avevo trovato in una stanza della vecchia casa cantoniera vicino al passaggio a livello tra via Milano e via Ghinaglia.
Mi ricordo la sua espressione quando mi aveva visto, un misto tra indifferenza e “Per favore, lasciami in pace, non sto facendo del male a nessuno, solo a me stesso”. Era seduto per terra appoggiato al muro, di fianco aveva uno zaino aperto e macilento e accanto un cucchiaio annerito e una siringa.
Non mi era mai capitato di vedere un eroinomane così da vicino, tantomeno così giovane, ma la cosa che più mi colpiva era la sua incredibile somiglianza a Layne Staley, uno dei miei idoli adolescenziali. Erano ormai anni che era sparito dalle scene, attendevo lì a un paio di metri da lui, aspettavo solo che parlasse in inglese con quella voce che conoscevo perfettamente, che avevo ascoltato centinaia di volte con il lettore cd. Finalmente parlò, non aveva abbozzato Down In A Hole e nemmeno aveva parlato in inglese, aveva biascicato un italianissimo «Che cazzo vuoi?».
«Proprio nulla». E mi ero seduto nell’altro angolo.
Continuavo a guardare questo ragazzo con i capelli corti biondi, i guanti di colori diversi e lo sguardo perso chissà dove. Ero rimasto zitto diversi minuti e poi gli dissi: «Mi sembra di essere in un romanzo di Kerouac».
Lui spostò la testa di fianco, verso me, sorrise. «Che cosa hai letto di lui?».
Cominciammo a parlare di Kerouac e dei suoi libri, della Beat Generation, del loro concetto di amore oltre la sessualità e fu lì che avevo sentito parlare per la prima volta di Bukowski.
«Io comunque sono Daniele».
«E io Omar».
Lo avevo rivisto altre volte, aveva una cultura immensa, mi parlava e spiegava Dostoevskij, mi raccontava aneddoti delle vite di questi scrittori leggendari, ti teneva in pugno, non perdevi una sola parola, quanto lo avrei voluto come docente di lettere.
Contemporaneamente vedevo il suo fisico deteriorarsi di volta in volta.
Finalmente presi coraggio e gli chiesi perché lo faceva, ma non per giudicarlo o rimproverarlo, proprio solo per sapere perché.
«La noia, non mi sentivo accettato dalla mia famiglia e non c’entravo più nulla con le persone che avevo intorno. Così avevo cominciato a farmi per creare fossati ancor più grandi tra me e loro. Ho provato a disintossicarmi. Sono stato pulito due anni, ma pulito o meno, tu rimarrai per gli altri un tossico. Non avrai più la loro fiducia e io non avevo la forza di continuare a combattere per dimostrare che si sbagliavano. Ma non mi importa e sono qua».
Fu l’ultima volta che lo vidi.
Fu trovato il 30 dicembre sotto un albero a Parco Sempione con la siringa ancora dentro al braccio.
Era un angelo con le ali sporche che si era trovato dalla parte sbagliata del Paradiso e dalla parte giusta dell’Inferno.
Robin Williams disse: «Fino ad allora credevo che la cosa peggiore che potesse capitarti nella vita fosse rimanere soli, ma mi sbagliavo. La cosa peggiore è stare con persone che ti fanno sentire solo».
Il sole sta tramontando, ma continuo ad aspettare per guardare la prima stella.