Dal quartiere potevi uscire in tre modi: entrando in tangenziale e, da lì, circumnavigando la città a piacimento; rischiando di attraversare il passaggio a livello, sempre con l’incognita di trovarlo chiuso, dovendo attendere lo sferragliare del treno; o facendo il sottopasso che collega la ciclabile – che scorre tra i palazzi e la ferrovia – a una delle maggiori arterie d’accesso alla città.
Non era soltanto un comodo passaggio per raggiungere la città, evitando le interminabili code al passaggio a livello, ma era anche un luogo di ritrovo.
Era ciclabile e non erano molti gli audaci eroi che lo usavano: meglio dieci minuti in coda davanti alle sbarre, con motore rigorosamente acceso e con la possibilità, nel frattempo, di svuotare il posacenere sull’asfalto, piuttosto che una sana pedalata.
Dopo una comoda e veloce discesa c’era l’inevitabile salita: non certo una cima da Giro d’Italia, ma pur sempre una fatica a cui ne seguiva un’altra.
Il sottopasso sbucava infatti su una strada chiusa, dove c’erano poche case e il deposito di un rottamatore di materiali ferrosi che, con una lieve pendenza, si immetteva sulla statale; anzi, a metà della rampa del cavalcavia, che permetteva di bypassare i binari.
Dopo quello, fortunatamente, c’era solo discesa, da affrontare sul ciglio della strada, sfiorati da macchine e camion entranti in città. Insomma, non proprio una passeggiata.
Ma per noi, ciclisti per forza, oltre a via di fuga era diventato anche luogo di ritrovo e di ricreazione lontano da occhi indiscreti, ombreggiato d’estate, anche se non fresco, e tetto sulla testa utile a mitigare la rigida umidità invernale.
D’inverno poi era fascinoso, avvolto nella nebbia, scenario naturale e ideale per un film horror di bassa lega.
Avevamo preso l’abitudine di passarci diverso tempo, lì sotto; era anche un’ottima half pipe a costo zero.
Ci accontentavamo di poco: un mangianastri con le giuste cassette, qualche latta di birra o i cocktail invernali di Monsieur Puma a scaldarci le ossa e l’anima, le siga normali e quelle ripiene, lo skate e tanta voglia di stare insieme a raccontarci cose o immaginarci un futuro da adulti con in tasca l’immancabile pennarello.
Come moderni incisori rupestri, dediti a vergare quelle pareti con versi rivoltosi, presi in prestito dai nostri canori poeti distorti, che servivano a vincere la noia dei momenti di imbarazzante silenzio tra un sogno e l’altro.
Nel suo ventre ci si sentiva protetti e forti, tranne una volta, quando qualcuno pensò bene di sfruttarlo per raggiungere la statale e prendere a sassate i pullman dei tifosi genoani diretti in autostrada, che colsero al volo l’occasione per visitare il quartiere all’inseguimento dei prodi lanciatori, che riuscirono a farla franca sfruttando passaggi poco ortodossi attraverso cantine e garage con la solidale complicità dei condomini.
Poi siamo cresciuti e sono arrivate la macchina, la possibilità di passare la serata in birreria e per qualcuno, ma non per tutti, la morosa.
Ogni tanto ci passo: lui è sempre lì, fedele nei secoli, con le scritte sbiadite e finalmente, alla fine della via, una moderna pista ciclabile, segno dell’evoluzione ambientale cittadina.
Se avesse voce potrebbe raccontarne, di storie; ma, fortunatamente, non può.