La premonizione
Non ricordo la data esatta, ma era verso la fine dell’estate del 1992.
Mi alzai a metà mattina dopo un turno di merda in fabbrica e sul tavolo della cucina c’era La Provincia.
Sfogliai svogliatamente le pagine fino ad arrivare alla prima pagina dello sport, allora sempre ed esclusivamente dedicata alla Cremo.
Lessi il titolo dell’articolo ed uscii dal torpore del risveglio: la Cremo era iscritta al Torneo Anglo-Italiano (Anglo-Italian Cup) e la finale si sarebbe giocata a Wembley, lo stadio di Londra dove giocava la nazionale inglese e si giocavano le finali delle coppe nazionali o internazionali.
Non credevo ai miei occhi. Lessi tutto l’articolo con meticolosa attenzione.
Era vero, la finale si sarebbe giocata a Londra il 27 marzo 1993.
Al torneo erano iscritte 16 squadre, 8 italiane e 8 inglesi, scelte tra le quattro retrocesse dalla massima serie nazionale e le classificate dal quinto all’ottavo posto del precedente campionato di Serie B.
Divise in due gironi, 4 italiane e 4 inglesi, si sarebbero affrontate in gare di sola andata senza mai sfidare le connazionali. Due gare in casa e due in trasferta, poi la migliore per nazione di ogni girone avrebbe sfidato in semifinale (andata e ritorno) la migliore connazionale dell’altro girone per far sì che una squadra italiana e una inglese approdassero poi alla finale di Londra.
Mia madre entrò in cucina. Non la salutai nemmeno, ma le dissi che, se la Cremo fosse arrivata in finale, sarei andato a vederla. Mi rispose con una tipica espressione cremonese per dirmi che non ci sarebbe mai andata.
La notizia si divulgò per la città e la sera, dopo il turno in fabbrica, mi fermai al bar. Non ero l’unico che voleva andare a Wembley.
Non restava che aspettare la formazione dei gironi e sperare nella Cremo.
Avevo dovuto rinunciare alla possibilità di andare in vacanza nella capitale inglese durante l’estate che volgeva al termine perché le mie ferie non combaciavano con quelle dei miei soci.
Il destino voleva mandarmi oltremanica. Londra chiamava.
L’avvento
Era giunto il momento di intraprendere il cammino verso la terra promessa: il torneo aveva inizio.
L’avventura grigiorossa cominciò allo Zini il pomeriggio dell’11 novembre 1992 contro il West Ham, gloriosa squadra londinese, liquidata per 2-0.
Non ero allo Zini, perché l’infelice scelta di giocare alle 14:30 faceva a cazzotti con il turno pomeridiano. Non digerii bene la cosa anche perché avrei voluto vedere all’opera gli Hammers, tifosi della squadra britannica, scesi in buon numero nella bassa padana.
Due settimane dopo ci toccò la prima trasferta nella terra d’Albione contro il Tranmere Rovers, squadra di Birkenhead, cittadina nei pressi di Liverpool, che fu battuta con un 2-1.
Nessun tifoso, che io sappia, seguì la Cremo in trasferta: l’unico cremonese presente fu Giovanni Ratti, con la doppia funzione di inviato del quotidiano locale e radiocronista per la diretta della partita. Che naturalmente ascoltai.
Altre due settimane di attesa e seconda trasferta britannica in quel di Derby, contro la locale compagine del Derby County.
Il buon Ratti fu anche stavolta, molto probabilmente, l’unico cremonese presente sugli spalti dello stadio della città inglese, lontana poco più di venti chilometri dalla più nota Nottingham, e raccontò ai radioascoltatori il 3-1 con cui, oltre a superare gli arieti delle Midlands, conquistammo matematicamente la semifinale contro la miglior connazionale dell’altro girone.
Dopo una settimana, lo Zini ospitò la gara della formalità contro il Bristol City, che finì 2-2, regalando ai pettirossi inglesi l’unico punto conquistato durante la manifestazione.
Non vidi neanche questo match, che fu giocato sempre di pomeriggio e sempre nella settimana del mio turno pomeridiano in fabbrica.
Poco male: c’era sempre la semifinale, e comunque l’obiettivo era la finale a Londra.
La semifinale era contro il Bari, che, nonostante due sole vittorie, si era aggiudicato il miglior posto tra le italiane e il diritto a giocarsi l’onore di calcare il prato di Wembley.
L’andata si giocò allo Zini alle 20:30 e io, naturalmente, facevo l’ennesimo pomeriggio del torneo: mi limitai ad ascoltare dalla voce di Ratti gli ultimi dieci minuti dello squillante 4-1 con cui spegnemmo i sogni di gloria anglosassoni dei galletti pugliesi.
Mancava il ritorno in Puglia, ma avevamo già mezza finale in tasca.
Due settimane dopo, un 2-2 al San Nicola ufficializzò il viaggio a Londra, con Ratti che chiuse la radiocronaca con un «Tutti a Londra», o qualcosa del genere.
Ricordo perfettamente l’ingresso trionfale e beffardo in cucina per andare ad annunciare a mia madre che, nonostante i suoi cattivi presagi, il mio sogno si era avverato.
Non restava che attendere le disposizioni per la trasferta londinese.
«Wembley Wembley / Ce ne andiamo / Ce ne andiamo a Wembley».
La migrazione
Era giunto il momento di partire.
I quasi millecinquecento cremonesi al seguito erano stati divisi in vari gruppi che, tra giovedì e venerdì, avrebbero raggiunto la capitale inglese, partendo da vari aeroporti del nord Italia.
Giovedì 25 marzo un volo British Airways, da Bergamo, avrebbe portato in Inghilterra il gruppo in cui ero stato inserito.
Eravamo una ventina. Conoscevo tutti, chi bene, chi solo di vista.
Era la settimana di mattina in fabbrica e, visto che il volo era previsto per il tardo pomeriggio, presi un solo giorno di ferie.
La mia giornata cominciò alle cinque con il fastidioso suono della sveglia. Mi aspettavano otto ore di fabbrica, che passarono abbastanza velocemente.
Al suono della sirena scappai letteralmente a casa, una doccia veloce e via, con lo zaino a spalla e un panino in mano, da mangiare in macchina lungo la via per Orio al Serio.
Raggiungemmo l’aeroporto orobico, che ai tempi era un piccolo scalo di provincia, e sbrigammo le formalità. Dovevamo far passare un paio d’ore prima di decollare.
Furono uno strazio. Sia io sia Ciccio eravamo al primo volo, lui era preso malissimo mentre il sottoscritto era tranquillo perché non sapeva cosa aspettarsi dalla nuova esperienza.
Giampi, il fratello di Ciccio, che aveva già diverse ore di volo alle spalle, mi rifilò la patata bollente del fratello in ansia, alle prese con la paranoia che l’aereo potesse schiantarsi al suolo.
Tra un caffè, una siga e una pisciatina, più si avvicinava l’ora, più lui si calmava, più la mia ansia saliva. Quando lo speaker comunicò che i passeggeri diretti a Londra dovevano recarsi all’imbarco, lui schizzò in piedi verso il gate.
Io restai impietrito seduto al mio posto, in sala d’aspetto. Non volevo più partire: temevo che l’aereo si schiantasse, inabissandosi nella Manica, trasformandoci tutti in cibo per pesci.
Fui richiamato all’ordine dall’Imperatore che faceva parte del gruppo e mi imbarcai, mi separarono da Ciccio, che svenne dopo pochi minuti dal decollo.
Due sonori ceffoni della hostess lo riportarono tra noi.
Atterrammo dopo un paio d’ore e l’impatto con la metropoli londinese fu folgorante, per me ragazzo di campagna abituato a tutto un altro stile di città.
Raggiunto l’albergo lasciammo i bagagli nelle stanze e ci fiondammo nella London by night, tra pub e fish & chips, finendo la serata in un’improbabile discoteca, che faceva musica latina (da noi non era ancora arrivata), situata nella cantina di un condominio residenziale.
Il nostro ingresso fu notato dal resto della scarsa clientela, sia per la rumorosa e alcolica irruenza con cui prendemmo posto al bancone, sia per il fatto che avevamo tutti la sciarpa grigiorossa al collo.
Due ragazzi si avvicinarono a noi e ci dissero che erano tifosi del West Ham, mostrandoci il biglietto della gara allo Zini. Fu l’apoteosi. Cominciarono una serie infinita di giri di Zombie, il cocktail tipico del locale di cui portava il nome.
Finimmo la serata ballando con delle milfone, urlando a squarciagola: «Solo Cremona / Nel cuore solo Cremona», mentre l’orchestrina suonava Guantanamera.
La passione
È venerdì e siamo a Londra: è questo il primo pensiero quando apro gli occhi.
Ciò non toglie che il mio risveglio è naturalmente da sempre un trauma, e non c’entrano le poche ore di sonno o i troppi drink della notte precedente, è così: per me il risveglio è traumatico.
Doccia, colazione e poi via per le strade della tentacolare metropoli britannica. Mille sarebbero i posti da vedere, poche sono le ore e allora via, in un turbine senza fine.
Su e giù dai vagoni della metropolitana, prendendo double-decker al volo e fermando black cabs per strada, entrando e uscendo dai pub e mangiando cibi untissimi, camminando nel traffico pedonale dei marciapiedi.
Così fino a sera. Piccadilly Circus e Carnaby Street, il Big Ben e il Tower Bridge, Westminster e Trafalgar Square, Buckingham Palace e Camden Town. Tra sacro e profano, tra gita turistica e visite underground.
Breve sosta in hotel per una doccia e via nella notte, evitando alcuni pub affollati da tifosi del Derby – avevamo immediatamente girato i tacchi appena entrati in un locale: poteva finire a baci e abbracci annebbiati dalla birra o, per lo stesso motivo, a schiaffi – e attardandoci in altri, dove trovavi sempre qualche cremonese intento a far comunella con i tifosi delle varie squadre londinesi.
Eravamo facilmente riconoscibili, tutti con i colori grigiorossi addosso.
Finimmo in un pub di Soho per chiudere la serata; usciti di lì dopo il tradizionale suono della campanella, alcuni di noi andarono in uno strip club. Giampi e io li aspettammo seduti su un marciapiede, godendoci lo spettacolo dei mostri che circolavano per il quartiere.
Rientrammo in albergo per goderci un paio d’ore di sonno prima di scendere in campo contro il Derby, a Wembley.
L’immortalità
Sabato mattina arrivò con un terribile mal di testa, figlio di due notti di bagordi, ma la colazione e una busta di Aulin mi rimisero in sesto.
L’appuntamento per tutti i vari gruppetti di cremonesi dispersi per Londra era a Piccadilly Circus, che per mezz’ora si trasformò nel piazzale dello Zini, poi tutti insieme in metropolitana verso lo stadio.
Arrivammo a Wembley e ci dirigemmo verso il settore a noi riservato. Nei dintorni dello stadio c’erano parecchi tifosi del Derby County.
Non successe niente, anzi, ci furono anche degli scambi di sciarpe, era festa sia per noi sia per loro.
Entrai con la stessa riverenza con cui un cattolico entra a San Pietro e rimasi esterrefatto a godermi l’immensità di quello stadio. Si respirava un’atmosfera particolare, come se tutti i grandi eventi che vi si erano tenuti aleggiassero ancora nell’aria.
Poi un boato mi riportò sulla terra. Erano gli arieti, che erano scesi a Londra in trentasettemila e occupavano tutto lo stadio tranne la nostra curva, di cui noi occupavamo solo uno spicchio.
Le squadre entrarono in campo e sia noi sia loro cominciammo a cantare. Si era sparsa la voce di farsi notare il più possibile, per far sì che le telecamere di mamma Rai ci inquadrassero.
Scoprimmo solo al ritorno che la diretta era cominciata con dieci minuti di ritardo. Io, come molti altri presenti, avevo programmato il videoregistratore un paio di minuti prima dell’inizio della diretta e sulla videocassetta, che conservo ancora gelosamente, ci sono dieci minuti di un insulso programma.
Pronti via e capitan Verdelli insacca di testa un corner battuto da Florijančič. Siamo in vantaggio dopo dieci minuti, ma dura poco: passano tredici minuti e Gabbiadini – giocatore inglese di chiare origini italiane, bergamasche per la precisione – pareggia.
La gara è combattuta, ma la Cremo dà l’impressione di averla in mano. Sicuramente il nostro tasso tecnico è una spanna sopra quello dei bianchi di Derby e infatti, verso la fine del primo tempo, Giandebiaggi entra in area dopo aver saltato due difensori avversari e viene steso. Rigore.
Purtroppo Eligio Nicolini angola poco il tiro dal dischetto e il portiere riesce a deviare in calcio d’angolo. Merda, merda, merda.
Il boato dei tifosi inglesi e più forte di quello dopo il loro gol; in quel momento un groppo alla gola mi invade d’ansia e comincio a credere che usciremo sconfitti.
Non mi godo per niente l’intervallo: sono talmente teso che non vado neanche a farmi una pinta al bar dello stadio.
Sono preso male (anzi malissimo) quando le squadre rientrano in campo: temo di dover assistere a una disfatta. E invece no.
Pochi minuti e il portiere del Derby atterra Tentoni in area. Rigore. Stavolta sul dischetto va Maspero, che fulmina l’estremo difensore inglese con un angolatissimo sinistro alla sua destra.
Mi rilasso e mi convinco che è fatta, che alzeremo al cielo quella fottuta coppa, alla faccia di tutti quei tifosi scesi dalle Midlands.
La Cremo controlla il gioco e non lascia buoni palloni ai bianchi, ma un solo gol di vantaggio non mette al sicuro l’incontro.
A una decina di minuti dalla fine, però, Tentoni schizza via veloce verso la porta sotto il nostro settore e pone fine alle ostilità. 3-1, come nella gara a casa loro nel girone di qualificazione.
Dopo aver gonfiato la rete, Tentoni corre sotto la curva, noi travolgiamo gli steward e ci aggrappiamo alla cancellata: vogliamo tutti abbracciarlo, ma solo pochi fortunati, tra cui il mio amico Ciccio, riescono a dargli un cinque.
Gli ultimi minuti scorrono veloci e al fischio finale comincia la festa. Dopo la premiazione in tribuna, la squadra viene a festeggiare con noi, mentre il resto dello stadio si svuota i nostri cori rimbombano.
Lasciamo Wembley e sciamiamo verso la metro, continuando la festa tra gli sguardi incuriositi degli altri passeggeri. Ci fermiamo in un paio di pub lungo la strada che porta all’albergo dalla fermata della metropolitana.
Abbiamo propositi guerrieri per il Saturday night, ma io crollo: la levataccia del giovedì mattina e le poche ore di sonno delle due notti precedenti mi stendono. Mi addormento vestito sul letto mentre aspetto gli altri per uscire; cercano di svegliarmi, ma non ci riescono. Sono esausto e mi sveglierò soltanto al mattino.
Le ultime pinte verso l’aeroporto chiudono un weekend storico e leggendario.
Una vittoria, eterna baldoria.