Ogni sera e ogni giorno incontro Snicio o Micioopy. Lo trovo sempre in Piazza Roma, dalle parti del Filo. Mi vede e mi viene incontro miagolante con la sua coda nera, ritta come antenna, quelle delle nostre radio captano musica, la sua i croccantini. Nella mia borsa tengo di tutto, tra cui un sacchetto che contiene un lungo spago marroncino, per giocare con gli eventuali felini, e, in una busta sigillata, appunto, qualche croccantino. Manco a dirlo, dopo averglieli dati la prima volta, siamo diventati amiconi. «Ciao Micio! Come stai?». «Miao, croccantini». «Tame te set bel!». «Croccantini». «Eh, proprio come la vita, tante domande e nessuna risposta». «Inutile porsi domande e faticare per cercare altrettante inutili risposte, bastano i croccantini». «Eh‽». «I gatti non parlano. Miao». Ovvio, penso, do qualche croccantino a questo Snoopy gattesco, lo accarezzo mentre divora il suo pasto e sento uno strano rumore metallico provenire alle mie spalle. Mi volto e vedo un signore che sta spingendo un carrello della spesa stracolmo. È vestito pesantemente, come fosse il più freddo inverno della Siberia, indossa un eskimo imbottito slacciato davanti e intravedo che ha vari strati di altri indumenti. Si chiama Stefano.
Non amo parlare del mio periodo depressivo, tendo a evitare il discorso, ma lui l’ho conosciuto proprio in quella fase. Era la sera della Vigilia di Natale, non stavo bene e non riuscivo a stare in casa, me ne andai a piedi, quasi cinque chilometri, ci sarebbe voluto un’oretta, ma non mi posi neanche il problema. Camminavo in mezzo alla strada, tanto sapevo che ero l’unico a essere in giro, mentre il resto del mondo era a casa al caldo per la tradizionale cena con i famigliari. I lampioni illuminavano con una noiosa luce gialla la strada e guardavo la mia ombra grigia scorrere lentamente, prima davanti, poi di fianco e infine dietro a me. Arrivai infine in centro, in Piazza Roma, mi sedetti su una panchina vicino alle montagnole, mi feci una sigaretta e guardavo il parco stranamente privo di vita, la fontana spenta e tutti gli alberi spogli. Non pensavo a nulla, ero troppo stanco, ero una foglia morta in balia del vento, mancava solo una settimana alla fine di quell’orribile anno ed era la mia unica piccola speranza. Mi accorsi dopo un po’ che non ero solo in quella fredda serata, c’era un barbone vicino alla casetta di legno. «Ciao», gli dissi ad alta voce, ma piuttosto insicura. Si girò un po’ stordito. «Uh ciao ciao! Eheheh ciao ciao! Eheheh», risata malsana, quasi folle, ma ero nella fase del “tanto ormai”. «Auguri. Come stai?». «Auguriauguriauguriauguri! Bene bene! Non stare lì, vieni qui! Eheheh». Mi avvicinai e mi sedetti per terra di fronte a lui. Lo potevo guardare bene, era vestito nello stesso modo della sera prima. Barba lunga brizzolata, sporca, e una cuffia blu di lana. Si tolse il guanto lercio e mi strinse la mano. Era una mano ruvida, rovinata dal freddo, le unghie nere, un po’ appiccicosa, ma emanava un raro calore umano, che negli ultimi tempi avevo incontrato poche volte, e il ribrezzo se ne andò via subito. «Io sono Stefano! Eheheh». «Io Daniele, piacere». Avevo fame, mi accorsi che erano giorni che non mangiavo. «Hai già mangiato?». «Boh! Eheheh». Erano le 22:30, l’unico posto aperto vicino era il kebabbaro in Via Guarneri del Gesù. «Aspettami dieci minuti». Tornai con due piadine giganti, gliene offrii una. La prese e si mise a piangere e a ridere contemporaneamente. Si girò versò il suo borsone e tirò fuori una bottiglia di vino rosso ancora chiusa. «Natale buon Natale, Daniele buon Daniele! Eheheh». Bevemmo a collo quella bozza di vino pessimo, quasi acetico, e mangiammo i nostri kebab. Parlava continuamente, tanti discorsi senza senso e molti altri invece di una profondità incredibile, di una persona con una saggezza maturata da una vita davvero estrema.
Mi accorsi che si era sporcato con la salsa piccante il maglione più esterno. «Porca vacca! Ti sei sporcato!». «Eheheh beh ma queste macchie le posso coprire con il giubbotto o lavarle con acqua di una fontanella e sapone, ma sui ricordi di una vita cosa ci puoi mettere?». Sorrisi amaramente. «Non lo so». «Eheheh ma la salsa! Queste macchie mi ricorderanno il primo Natale che non ho passato da solo dopo tanti anni! Eheheh Daniele buon Daniele!». Era arrivata la mezzanotte e avevo un’ora di strada per tornare a casa. «Ciao Stefano, vado. Buon Natale e grazie del vino». «Ciao! Eheheh». Mancavano sei giorni alla fine dell’anno, ma con un po’ di salsa sarebbe passato.