Non ricordo che giorno fosse il 15 agosto del 1979, né che tempo c’era e se il caldo fosse stato clemente con noi popolo della buca padana.
Non ricordo se avevo passato la giornata a casa o da qualche parte, ma sicuramente avevo passato il tempo a giocare.
Avrei compiuto otto anni meno di un mese dopo e a quell’età, durante le vacanze estive, si passa la giornata a giocare.
Ma ricordo bene che cosa successe nei giorni a venire.
Non esistevano i cellulari: il telefono di casa, un enorme aggeggio della sip grigio, suonava in continuazione e quando non suonava, era perché mia mamma stava telefonando a qualcuno.
Non esistevano le chat di gruppo delle mamme della classe, ma il passaparola via cavo: una mamma telefonava all’altra che, a sua volta, telefonava a un’altra per comunicare qualcosa e via così, fino a raggiungerle tutte.
Vedevo mia mamma triste e ne sentivo la voce singhiozzante mentre parlava nella cornetta: non capivo cos’era successo, ma sicuramente la notizia che stava circolando era triste.
Poi me lo comunicarono.
Era morto Luca, un mio compagno di classe.
La cosa, già di per sé orribile, lo era ancor di più per il modo in cui era morto.
Stuprato e poi strangolato, e il suo piccolo corpo nascosto nella fossa di un ascensore del vecchio ospedale della città.
Abitavamo a cinquecento metri in linea d’aria l’uno dall’altro, ma, complice il fatto di abitare in quartieri diversi, non ci frequentavamo molto fuori dalle lezioni.
Poi, d’estate, non è che frequentassi molto neanche gli altri miei compagni: i miei non mi hanno mai mandato né al grest dell’oratorio né al centro estivo comunale, e le mie vacanze le passavo prevalentemente in casa o in cortile a giocare con l’unico altro bimbo del condominio.
Interminabili partite di calcio, uno contro uno, su un campo con una forma neanche lontana parente del classico rettangolo di gioco, ma per noi era come giocare a Wembley.
Dopo pochi giorni, tutta la classe si trovò catapultata al funerale: l’idea di tv del dolore era ancora lontana, ma quel giorno dividemmo con i genitori di Luca il ruolo di protagonisti.
Fotografati e inquadrati da ogni angolo, sia mentre entravamo in chiesa in fila indiana, come se stessimo entrando normalmente in classe, durante la funzione nei banchi a noi riservati, sia al cimitero, prima, durante e dopo la tumulazione.
Quando ci trovammo davanti alla chiesa di Sant’Abbondio, dopo i primi attimi di smarrimento affrontammo la cosa con l’innocenza e la stupidità tipiche dell’età: eravamo stati travolti da una valanga e non ce ne rendevamo conto.
Nelle nostre chiacchiere di “giovani guerrieri”, giurammo che avremmo vendicato la sua morte: eravamo soldati di una guerra contro il male che dovevamo vincere per Luca.
Quel giorno cambiò sicuramente il nostro modo di crescere, rendendo meno spensierata la nostra gioventù.
A distanza di quarant’anni frequento due compagni di allora e non so, se Luca fosse ancora tra noi, come sarebbero i nostri rapporti, ma tutti gli anni, a Ferragosto, qualcosa mi rende triste.
Forse a questo tragico evento devo il fatto di non essere un cultore della sacra giornata di vacanza italiana.
L’assassino è morto qualche anno fa, ma quando, qualche tempo prima, la notizia della sua scarcerazione apparve sulla stampa locale, qualche “giovane guerriero” si ricordò di quel lontano giuramento.