Attenzione: gli spoiler sono molti, quasi un riassunto.
«Non so se sai tutto quello che c’è da sapere sugli specchi.
Ma qualunque cosa tu sappia, non dirla».
Arthur Machen, in una lettera a James Branch Cabell, 17 febbraio 1918
«Gli scrittori sono bugiardi».
Erasmus Fry, mentre discorreva, 6 maggio 1986
Questo terzo volume (qui e qui le recensioni dei precedenti) raccoglie quattro storie che contribuiscono a comporre la mitologia di Sandman, non essendo inserite nel filone principale che, nel secondo volume, era arrivato alla conclusione del ciclo di cui era protagonista Rose Walker.
Il netto stacco rispetto all’evolversi della storia del Signore dei Sogni è evidente già dal fatto che Morfeo non compare che come comprimario e in un caso non è nemmeno presente, in quanto il suo ruolo è preso dalla sorella Death. Forse il titolo del volume è dovuto alla sintesi che ogni racconto, nel suo diverso ambito, dedica a ciò che possono essere i sogni e i loro territori di esistenza che implicano l’umano e il non umano.
È però necessario un excursus al difuori del volume per parlare di un importante edizione speciale che precede Sandman. Le terre del sogno, cioè La canzone di Orfeo. Nella versione presentataci da Gaiman del mito di Orfeo ed Euridice, Orfeo è il figlio del Signore dei Sogni e di Calliope, una delle Muse. All’interno del classico, Gaiman introduce gli Eterni come la famiglia di Orfeo e, dati i loro ruoli, evidenzia subito, tramite delle frasi sibilline indirizzate dagli stessi al giovane cantore, la tragedia imminente, che pure essi (parenti) non impediscono.
La storia è risaputa: al matrimonio di Orfeo ed Euridice, un fauno ebbro di vino di nome Aristeo insegue Euridice che, correndo, viene morsa da un serpente e muore. In questa rivisitazione, prima di scendere nell’Ade, Orfeo chiede aiuto al padre e agli zii in un ipotetico percorso verso la propria morte: dapprima incontra Morfeo. Orfeo non ha rinunciato all’amata e il dialogo tra padre e figlio sembra sancire l’impotenza del sogno nel risolvere la questione.
Orfeo: «Non ho ancora detto addio ad Euridice».
Morfeo: «Dovresti. Sei un mortale: è l’usanza mortale. Partecipi al funerale, saluti il morto. Provi dolore. Poi continui la tua vita. E a volte il fatto della sua assenza ti colpirà come un pugno nel petto e piangerai. Ma questo col passare del tempo succederà sempre di meno.
Lei è morta. Tu sei vivo. Dunque, vivi».
A questo punto Orfeo parla prima con Distruzione, il quale, con buon senso e meno freddezza di Morfeo, prova a farlo desistere dal suo intento (il proprio annientamento, appunto), ma non riuscendovi lo invia da Morte, che di fronte a tanta insistenza mostra al giovane la via per gli inferi, dopo un ultimo tentativo di dissuasione.
Orfeo: «Ma gli eroi e gli dei visitano gli inferi. Eracle per esempio…».
Morte: «Ascolta, idiota. Non puoi andare negli inferi e tornare, non se sei un mortale. Eracle si era ubriacato a morte per un paio di settimane in Frigia e diceva a tutti di essere stato nella terra dei morti».
Arrivato di fronte a Proserpina e ad Ade, Orfeo canta la propria canzone, facendo piangere tutti i dannati e le furie e gli eroi sottoposti a supplizio. I re degli inferi, con la condizione che torni alla luce del sole senza mai voltarsi, gli danno la possibilità di riavere Euridice. Dopo un lungo tragitto e a pochi metri dalla luce, assalito dai dubbi, Orfeo si volta e perde l’amata per sempre. Ritiratosi nel bosco, invecchiato e solitario, Orfeo viene assalito da un’orda di baccanti che ne smembrano e divorano il corpo, lasciandone la testa sulla spiaggia, che viene in seguito recuperata da Sogno, in quanto Orfeo è ancora vivo, e affidata a degli oracoli. Dopo le ultime parole di commiato, Sogno abbandona Orfeo, senza mai voltarsi fino a quando sparisce dall’orizzonte.
In maniera efficace Gaiman ha reso la tragedia dell’amore, che pur nella sua bellezza e nei suoi nobili sentimenti è concepibile, nell’amore della tragedia: in ogni momento, fin dall’inizio, è chiaro che il destino di Orfeo è segnato, eppure egli non ne diviene mai artefice, bensì lo subisce come un treno segue i binari: senza deragliare (in genere).
Calliope è il sogno degli scrittori e il primo racconto del volume. In particolare di Richard Madoc, brillante scrittore inglese il cui primo libro è stato in cima alla classifica delle vendite, ma che in crisi di ispirazione non riesce più a scrivere una riga. Tramite uno scambio con un vecchio scrittore, Madoc entra in possesso di Calliope, la musa che Erasmus Fry aveva catturato su un monte della Grecia. Violentando ripetutamente Calliope, Madoc ricomincia a essere ispirato e a scrivere romanzi, sceneggiature teatrali e film che balzano in cima alle classifiche e vincono tutti i premi (l’idea di violenza a una musa dell’arte è particolarmente adatta a taluni “artisti”), e tutto finché Calliope non incontrerà Sandman, suo ex sposo, in un sogno, per chiedergli di aiutarla. Morfeo incontra dunque Madoc, chiedendogli molto semplicemente di liberare Calliope, senza dimostrare un effettivo risentimento, allorché le scuse e i capricci dello scrittore lo indispettiscono al punto da condannare lo scrittore a un eccesso di ispirazione: Madoc viene sommerso da idee e storie che deve scrivere in continuazione, finché, terminati i fogli e le penne, si sbriciola le dita delle mani scrivendo sui muri e accetta di liberare Calliope, rimanendo vuoto di idee come una scatola di cartone.
Moltissime epoche fa i gatti dominavano il mondo, che era stato creato per loro sollazzo e divertimento, mentre gli umani erano creature minuscole al servizio dei gatti. È questo il sogno che una gatta siamese cerca di diffondere tra i suoi simili, girando il mondo in lungo e in largo ne Un sogno di mille gatti, in cui Gaiman paga tributo agli amati felini. Una gatta a cui sono stati soppressi i propri gattini si mette alla ricerca di Sogno per poter capire come stanno le cose, e una volta trovatolo questi (sotto la forma di un gattone nero, ovviamente) le spiega come nell’era dei gatti un umano prese a diffondere l’idea che i sogni potessero plasmare il mondo, e perciò se almeno un migliaio di persone avessero sognato una terra dove erano gli umani a comandare come re e regine, ciò sarebbe accaduto. E difatti è ciò che è accaduto: una mattina i gatti si sono svegliati rimpiccioliti e in balia degli uomini. Alla coraggiosa gatta non resta che girovagare per il mondo per diffondere la speranza che i sogni possano cambiare il mondo e ridare ai felini il loro regno.
Nel racconto Sogno di una notte di mezza estate (tra l’altro vincitore del World Fantasy Award, massimo riconoscimento in ambito fumettistico), Morfeo ottiene da Will Scexpir una parte di ciò che avevano pattuito in occasione del classico incontro tra il Signore dei Sogni e Hob Gadling (vedi il secondo volume, Casa di bambola), ovvero la capacità di donare sogni all’umanità in cambio di due opere che celebrassero il sogno, di cui appunto Sogno di una notte di mezza estate è la prima. Scexpir e la sua compagnia itinerante si fermano in una tra le colline del Sussex, dove li attende Morfeo e dove questi reciteranno la loro commedia (Morfeo: «Il colle di Wendel era un teatro ancor prima che la tua razza giungesse sull’isola». Scexpir: «Prima dei Normanni?». Morfeo: «Prima degli umani»).
Infatti al crepuscolo si apre sul colle un portale tra la terra degli uomini e Faerie, il paese delle fate, i cui abitanti (fate, folletti, spiritelli e creature di ogni sorta) invadono la spianata per poter assistere alla rappresentazione di cui sono loro stessi alcuni dei protagonisti, come ad esempio Oberon e Titania, re delle fate, o il folletto Puck, il quale al termine della rappresentazione rimarrà nella terra dei mortali (e in seguito si scoprirà il perché).
Non è difficile intuire perché questo racconto abbia riscosso tanto successo: la sceneggiatura è impeccabile (e in fondo al volume, con degli esempi, si scopre come Gaiman sia maniacale in questo) e il mix tra la commedia shakesperiana e la saga di Sandman rende il tutto una fiaba in cui a trionfare sono l’immaginazione e quelle atmosfere care agli amanti delle narrazioni popolari.
Una menzione a parte per Charles Vess, autore dei disegni, molto semplicemente il migliore nella resa dei racconti fiabeschi.
Sembrerà incredibile, ma ci sono persone che non possono morire, e questo è il caso di Elemental Girl in Façade: ex eroina al servizio della CIA, una donna trasformata dal dio egizio Ra in un metamorfo, ovvero un essere in grado di trasformarsi in un elemento chimico qualsiasi e dall’aspetto esteriore alquanto terrificante.
Elemental Girl è però stata dimenticata dall’Agenzia, il cui ultimo contatto è un addetto dell’ufficio paghe che si occupa di farle avere la pensione di invalidità, così passa le giornate da sola nel suo appartamento, al buio, fumando sigarette a nastro nell’inutile speranza di poter morire. Capita così che, in seguito a una precisa richiesta, entri nella casa una ragazza vestita di nero a cui Elemental Girl racconta tutta la disperazione della sua inutile vita e costei (Death) le spiega come solo lei abbia il potere reale sulla propria morte e di come le basti parlare con il Sole-Ra per poter ottenere ciò che vuole, cosa che non tarda a fare, anche se nell’ultimo istante si accorge di quanto il sole sia bello, come in un ultimo e tardivo ripensamento.
Ovviamente questo racconto può innescare delle polemiche riguardo all’idea del suicidio come atto legittimo che sembra trapelare, ma in fin dei conti si tratta di un personaggio che può trasformarsi in metallo, azoto e quant’altro, con in più un aspetto terrificante, ovvero qualcosa di cui nessuno si può lamentare. Inoltre si tratta di una celebrazione del personaggio dei fumetti Elemental Girl, abbandonato dalla DC Comics e finito nel dimenticatoio, una sorte che sarebbe potuta toccare allo stesso Sandman.
Si chiude così il terzo volume di storie, la cui chiusura perfetta non possono che essere le celebri parole di Robin Bravomo: «Se l’ombre nostre v’han dato offesa voi fate conto… Che v’abbiano colto queste visioni così a sorpresa mentr’eravate in preda al sonno. In lieve sonno sopiti, ed era ogni visione vaga chimera. Non ci dovete rimproverare se vana e sciocca sembrò la storia. E com’è vero che io son folletto onesto e semplice, sincero e schietto, se pure ho colpe, non ho mai avuto lingua di serpente falsa e forcuta. Pago l’ammenda senza ritardo… O mi direte che son bugiardo. Sogni felici a tutti voi.
Applaudite se siamo amici. E se abbiam recato torto, faremo ammenda».