La leggerezza nella pratica filosofica
«I nostri problemi sono troppo gravi
per essere abbandonati allo spirito di serietà».
Yves Citton¹
Abstract
La filosofia è spesso percepita come un’attività “pesante”, connotata da argomenti seri e da un approccio pedante. L’analisi delle esperienze con l’Institut de Pratiques Philosophiques e con La Palestra della Scrittura offre lo spunto per trattare il tema della leggerezza nella consulenza filosofica, mostrando come questa possa essere al tempo stesso una caratteristica che connota la filosofia pratica rispetto alla filosofia accademica, uno strumento per rendere la consulenza più fluida, un indicatore del buon svolgimento della consulenza e il risultato finale del processo dialogico.
Possiamo quindi ipotizzare che la leggerezza sia un elemento caratterizzante di un particolare approccio alla consulenza filosofica. Ma cosa intendiamo, quando diciamo “leggerezza”?
Introduzione
Achille Campanile mi perdonerà il peccato veniale di avergli rubato, se non le parole, almeno il format: alzi la mano il lettore² a cui non è capitato almeno una volta di assistere o di essere uno dei protagonisti di questa tragedia in due battute³:
«Cosa hai studiato?».
«Filosofia».
«Che peso!».
La Filosofia è pedante, noiosa, barbosa, monotona, saccente, puntigliosa, sofistica, spocchiosa, snob, dogmatica e cattedratica. In una parola: pesante. Almeno, vista da fuori. Se la filosofia accademica ha impiegato secoli per crearsi una nomea non del tutto immotivata⁴, la consulenza filosofica si è invece posta l’obiettivo di ri-portare la filosofia proprio fuori, tra i non-filosofi. Per farlo deve necessariamente ripensare alcuni suoi presupposti⁵, primo fra tutti quello dello stile: “alleggerendo” l’approccio ai problemi, ai suoi interlocutori e alla sua stessa tradizione.
Con questo non intendo mettere in discussione l’impianto linguistico, storiografico e accademico della filosofia (se non altro per mancanza di spazio: 20 cartelle sono poche per scardinare un paio di millenni di tradizione), ma voglio evidenziare la possibilità, anzi la necessità, di una apertura ad un metodo e ad un abito filosofico “altro”, quando la filosofia entra in contatto con la Vita fuori dalle Università. Questo abito, se mi è consentito continuare con la metafora sartoriale, è estivo: la sua caratteristica fondamentale deve essere la leggerezza.
Le mie riflessioni sulla leggerezza nella pratica filosofica prendono le mosse da due contesti particolari: la collaborazione con l’Institut de Pratiques Philosophiques⁶ (d’ora in avanti IPP), un ente di consulenza filosofica che si rifà agli insegnamenti e alle teorie di Oscar Brenifier e Isabelle Millon, e la frequentazione⁷ dei corsi della Palestra della Scrittura (d’ora in avanti PS), società di consulenza e formazione, specializzata in comunicazione, scrittura efficace e cambiamento strategico, fondata da Alessandro Lucchini e Paolo Carmassi.
L’esperienza con l’IPP è stata filosofica e formativa in senso stretto, nei contenuti, nei metodi e nelle finalità; l’approccio della PS è invece più operativo, lontano dal mondo filosofico, con un focus marcato su linguaggio e sull’umorismo nella comunicazione.
Avendo a disposizione, da un lato, un metodo di consulenza filosofica strutturato e, dall’altro, un metodo formativo pensato per l’azienda e per i privati (la Vita fuori dall’Università di cui dicevamo prima), la tentazione è stata quella di indagare la trasferibilità e le potenzialità del primo metodo, all’interno del secondo. Un tentativo di métissage o, se preferite, una jam session⁸, in cui musicisti (con annessi strumenti) che non si conoscono provano a creare qualcosa di nuovo, improvvisando.
Va bene, si starà chiedendo il Lettore Impaziente, ma la leggerezza, in tutto questo, dov’è?
Incamminiamoci.
La leggerezza
Definire un concetto è una operazione da esploratori ottocenteschi: abbiamo una vaga idea della direzione in cui incamminarci e, una volta arrivati sul posto, dobbiamo iniziare a prenderne le misure. Cerchiamo un’altura per dare uno sguardo dall’alto, ma è solo quando ci incamminiamo, piedi a terra e sguardo ai dettagli, che iniziamo a conoscere davvero il territorio di cui dobbiamo disegnare la mappa: ci possiamo concentrare sulle rocce o sui fiumi, sulle foreste o sulla fauna e, ogni tanto, abbiamo l’esigenza di salire ancora in alto, per capire a che punto siamo. Tutto quello che vediamo viene costantemente confrontato con i racconti di altri viaggiatori, nello stesso territorio o in posti simili: la definizione di un concetto passa dalla osservazione degli elementi che lo compongono e dalla stratificazione di sguardi diversi.
Il territorio non si esaurisce alla prima esplorazione e ad ogni nuovo passaggio, nuovi segni si aggiungono alla mappa e nuovi episodi arricchiscono i racconti di viaggio: la definizione di un concetto è sempre provvisoria e storica.
Cominciamo con l’identificare la vaga direzione verso cui guardare: la leggerezza nella pratica filosofica che intendo proporre non è quella che potrebbe derivare dalla definizione di leggerezza del vocabolario, ma si muove a partire da un’accezione del termine, che ha a che fare con un particolare approccio al mondo e alla filosofia stessa e con una attitudine a cogliere o proporre gli aspetti umoristici o addirittura comici del mondo e della filosofia. Per poter essere leggeri è necessario imparare «l’arte del togliere peso»⁹ per imparare a essere felici¹⁰. E le persone felici ridono, o almeno sorridono.
Campanello (2015) propone un’interessante analisi del concetto di leggerezza, con cui confrontarsi:
«[…] la leggerezza rimanda alla levità, alla delicatezza, alla dolcezza, alla gentilezza, alla agilità, al volo, alla possibilità di sollevarsi dal suolo, rimanda all’idea di fare un ampio respiro.
Nelle sue accezioni negative la leggerezza rimanda invece all’inconsistenza, alla mancanza di serietà, alla superficialità, all’incostanza, all’avventatezza e alla frivolezza, a ciò che è inutile e banale, sciocco. A noi qui interessa ovviamente il primo modo di intenderla, essa non è superficialità ma è non avere macigni sul cuore»¹¹.
Campanello traccia un confine tra una leggerezza buona e una leggerezza cattiva, scartando la seconda. Ma a noi qui interessano entrambe le accezioni: anche ciò che non è serio, che è superficiale, frivolo e sciocco può avere un ruolo nel riportare la filosofia ad una dimensione giocosa e viva. Non ci lasciamo tentare dal minimalismo del fare ordine, del togliere: essere leggeri è anche saper vivere nel caos e renderlo fruttuoso.
Recuperare l’aspetto (quello più triviale e ridanciano) della leggerezza scartato da Campanello¹², non significa rigettare polemicamente le sue riflessioni che sono, anzi, preziose e puntuali, in particolare quando si riferisce alla leggerezza come antidoto alla tendenza ad innalzare il sacrificio e la sofferenza a valori assoluti:
«Ritrovare la leggerezza, sentirsi meritevoli e in diritto di vivere questa condizione esistenziale, è una parte importante dell’esercizio filosofico che porta a conquistarla stabilmente come postura esistenziale: la vita non è solo sofferenza, o soltanto dovere, serietà, mortificazione, dolore, sacrificio»¹³.
La leggerezza diventa dunque l’opposto eracliteo del sacrificio sofferente, il contrappunto che innesca l’armonia di opposti che genera l’equilibrio oscillante sul quale si fonda la Vita. E allora, perché escludere la leggerezza (presunta) cattiva? Non ha anche lei una parte in questo gioco degli opposti?
Segnatevi “equilibrio oscillante”: la leggerezza che ci interessa, si gioca tutta qui.
Per una ulteriore conferma di quanto la leggerezza della risata, che si oppone alla serietà, sia costitutiva della postura filosofica più autentica, leggiamo Merleau-Ponty:
«La filosofia […] è l’utopia di un possesso a distanza. La sua natura può dunque essere tragica, e poiché alberga il suo contrario in sé stessa, non è mai una occupazione seria. L’uomo serio, se mai esiste, è l’uomo votato ad una cosa sola, alla quale dice di sì. I filosofi più risoluti vogliono invece sempre i contrari: realizzare ma distruggendo, sopprimere ma conservando. […] Il filosofo dona all’uomo serio […] un’attenzione forse più acuta di qualsiasi altro, ma è proprio per questo che si sente che egli non vi partecipa»¹⁴.
La centralità del linguaggio
Abbiamo individuato la direzione in cui dirigerci, ora possiamo abbassare lo sguardo e concentrarci sul terreno sul quale muoveremo i nostri passi: la mia tesi, ma forse sarebbe meglio chiamarlo il mio presupposto, è che il materiale con cui la consulenza filosofica lavora non siano i pensieri dei consultanti, ma il linguaggio, le parole con cui i consultanti esprimono il loro pensiero¹⁵.
Questa tesi trova conferma del ruolo centrale che il linguaggio ricopre, ad esempio, nelle attività dell’IPP. Entriamo nel dettaglio quanto basta.
Verso la fine degli anni ’90, Isabelle Millon e Oscar Brenifier hanno sviluppato la loro particolare forma di consulenza basata su un metodo di analisi del discorso che può essere schematizzato in tre punti:
1. individuazione dei punti chiave del discorso;
2. analisi dei presupposti impliciti e delle opinioni esplicite nel discorso;
3. superamento delle opinioni.
Tra gli strumenti più utilizzati dall’IPP per analizzare le parole del consultante troviamo l’appello al senso comune: il consulente invita il consultante a confrontarsi con un’alterità che serve a ristabilire un metro di paragone ed uno standard nel caso in cui le posizioni di chi discute si complichino o si arrocchino su posizioni personali poco intuitive. È lo stesso richiamo di Wittgenstein, che afferma:
«Quando i filosofi usano una parola – ‘sapere’, ‘essere’, ‘oggetto’, ‘io’, ‘proposizione’, ‘nome’ – e tentano di cogliere l’essenza della cosa, ci si deve semplicemente chiedere: questa parola viene mai effettivamente usata così nel linguaggio, nel quale ha la sua patria? Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano»¹⁶.
Non è solo la scuola francese di consulenza filosofica a porre il linguaggio al centro della sua attività: la Palestra della Scrittura è nata come «un laboratorio di ricerca sul linguaggio, un luogo pensato per sperimentare soluzioni nuove, sviluppare percorsi cognitivi e trasferire conoscenza», che utilizza in primo luogo la scrittura per «sperimentare come le parole agiscono sul pensiero: dalla pubblicità alla politica, dall’economia alla scienza»¹⁷.
I quattro ambiti principali di formazione sono tutti legati al linguaggio, scritto e agito (il che significa non solo quello parlato!): la scrittura, la relazione, il cambiamento e la strategia. Il nodo che lega questi filoni è la convinzione che la parola possa fare la differenza in tutte le situazioni, in particolare in quelle critiche.
Wittgenstein non è mai citato dai formatori della PS, ma sembra evidente che il presupposto della loro pratica sia lo stesso della proposizione 5.6 del Tractatus:
«I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo»¹⁸.
Inoltre la centralità della parola nella pratica getta un ponte molto solido verso la teoria dei giochi linguistici:
«I concetti: proposizione, pensiero, linguaggio, mondo, stanno in fila l’uno dietro l’altro, ciascuno equivalente all’altro. (Ma per quale scopo si possono usare queste parole? Manca il giuoco linguistico in cui applicarle.)»¹⁹.
Ad ulteriore conferma di quanto sia all’interno del linguaggio che la filosofia viva e agisca sulla vita delle persone, chiamiamo in aiuto K. Jaspers, che nella introduzione di Del tragico scrive:
«È proprio dell’uomo in quanto uomo cercare di scrutare il fondo della verità. La verità esiste sempre, per lui e in lui, attraverso il linguaggio, per quanto rozzo e oscuro esso sia»²⁰.
Uno dei compiti della consulenza filosofica è proprio quello di creare lo spazio per un dialogo in cui possa nascere e svilupparsi un linguaggio che non sia “rozzo e oscuro”, con la speranza che, in qualche misura, questo possa avvicinare insieme consulente e consultante alla verità.
Dietro ogni fenomeno comunicativo c’è un tentativo di stabilire una relazione e di affermare una visione del mondo.
«L’individuo non sta solamente tentando di comunicare con qualcun altro, ma allo stesso tempo sta cercando di riaffermare e ristabilire la propria versione idiomatica del mondo»²¹.
Elementi della leggerezza
Siamo nella direzione giusta e abbiamo capito su che terreno ci stiamo muovendo: è il momento di guardarci intorno e tracciare i primi segni sulla mappa di questo territorio.
Non accademicità
La prima caratteristica della leggerezza filosofica è un approccio disincantato alla tradizione, senza la riverenza e la pretesa di scientificità della filosofia accademica.
Con questo non intendo dire che la filosofia accademica sbagli nella sua ricerca di rigore, ma che questa precisione intransigente non serve durante la consulenza, anzi, rischia di essere controproducente, alzando una barriera tra consulente e consultante:
«[…] [I] filosofi […] [d]erisi in quanto originali arzigogoloni, oppure fuorviati visionari con una cattiva reputazione, o come speculatori senza lavoro e senza rendita, i filosofi sembrano destinati a tutto tranne che a dimostrarsi seriamente pratici.
In ogni caso, ancora più ridicola della stravaganza dei filosofi […] è però l’acribia e la pignoleria, la diligenza spensierata dei pedanti filologi; oppure un’altra tipologia è rappresentata dal ‘contabile dello spirito’»²².
È sempre lo stesso Achenbach a motivare, con un parallelismo, la distanza dalla filologia e dalla tentazione professorale che il consulente deve sempre mantenere durante la consulenza:
«La filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel o con qualche altro. Le letture non sono una medicina che si possa prescrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina? Allo stesso modo, anche l’ospite della consulenza filosofica non verrà addottrinato, non gli verranno cioè date in pasto parole intelligenti né gli verranno servite ‘teorie’»²³.
Allontaniamoci ancora di più dalla “filosofia della pretesa”. Achenbach riporta una citazione di T.W. Adorno che suggerisce la reazione più efficace alla pesantezza della tradizione: «Finché la filosofia aderisce alla lieve traccia del titolo di un libro di un vecchio kantiano pubblicato più di trent’anni fa: ‘Dall’angolo dei filosofi’, fino a quel momento la filosofia sarà ciò di cui si fanno beffa i suoi dispregiatori»²⁴. La risata è l’arma per reagire alla filosofia dei «funzionari professionali del pensiero e amministratori del concetto», che se ne stanno rintanati in un angolo, arroccati in una torre di analisi filologica e storica, aggrappati alla sacralità del Testo.
Se Adorno si limita a suggerire, Hans Blumenberg va dritto al punto: in Storia della ricezione dell’aneddoto di Talete²⁵ descrive la caduta del protofilosofo come la parabola a cui è destinata la filosofia accademica. Blumenberg sottotitola la sua opera Sul comico della teoria pura, condensando in una frase la fine ridicola della filosofia che si prende troppo sul serio e indicando l’arma migliore con cui opporsi a questa pedante occupazione da arzigogoloni: la leggerezza della risata.
Nella pratica filosofica con l’IPP gli accenni espliciti alle cornici filosofiche in cui si stavano muovendo i laboratori, sono stati sempre svincolati da riferimenti bibliografici (a meno che non venissero esplicitamente richiesti dai consultanti) e sono stati spesso introdotti con una metafora che ha fatto sorridere: per poter vedere Hegel o Foucault o Nietzsche o Socrate, era necessario “aprire il cofano della macchina” per scoprire che a muoverla erano i filosofi “sudati e affannati, mentre corrono dentro una ruota per criceti”.
Il consulente filosofico costruisce la sua pratica sulle solide fondamenta della conoscenza della storia della filosofia, delle interpretazioni degli autori, della evoluzione del loro pensiero; è aggiornato sulle diatribe interpretative, ma durante la consulenza fa come se non le conoscesse. “Fare come se” è alla base di molti giochi infantili: al filosofo è chiesto di giocare. E di far giocare il consultante con i concetti e le sue visioni del mondo.
Le conseguenze per chi sceglie di non alleggerirsi sono almeno tre.
In primo luogo, il ritmo della consulenza è frammentato dai riferimenti alla tradizione e perde la fluidità necessaria per poter seguire il filo del ragionamento: la consulenza avviene qui ed ora, nel concreto svolgersi del dialogo e non può permettersi il lusso di aprire troppe parentesi o note a piè di pagina. La parola scritta consente di rileggere, di tornare al punto in cui si è perso il filo del discorso e ricostruirlo; interrompersi per puntualizzare un dettaglio bibliografico o filologico significa spesso compromettere il ragionamento che si stava portando avanti. Immaginate di guardare un film in compagnia e, ogni volta che compare un nuovo personaggio, il vostro compagno di visione mette in pausa e snocciola la filmografia dell’attore, i premi vinti, i doppiatori che si sono avvicendati e il duro lavoro per entrare nella parte: al terzo stop, la trama del film sarà per voi solo un tenue ricordo. Forse vi sarete dimenticati anche il titolo.
In secondo luogo, lo sfoggio di conoscenza della tradizione filosofica è uno degli elementi che allontanano il consulente e il consultante: nella consulenza il dialogo tra i due partecipanti è paritetico, i due hanno pari dignità; ricordare all’ospite, ogni volta che se ne ha l’occasione, che il filosofo “ne sa di più”, pone i due interlocutori su piani diversi. Da un lato il consultante che porta un tema, dall’altro il consulente che “ha già delle risposte” e sembra trincerarsi dietro l’Auctoritas che lui conosce e che il suo interlocutore ignora. Non so a voi, ma quando qualcuno mi ricorda ogni volta che può, che è migliore di me, mi sta antipatico.
Da ultimo, troppa teoria esplicita è inutile; lo abbiamo già visto nel parallelo fatto da Achenbach tra filosofo e medico: nessuno va dal dottore per sentirsi spiegare il meccanismo della attenuazione del fascio radiante e come questo influisca sulle unità Hounsfield, ma per sapere se la massa del suo tumore è aumentata o diminuita e quale terapia può essere utile per lui. Allo stesso modo al consultante non interessa la differenza tra il nominalismo della prima Scolastica di Roscellino e quello della tarda Scolastica di Ockham²⁶, al consultante può essere utile sapere che quando usa un termine generale può, inconsapevolmente, pensarlo come esistente o comportarsi come se fosse solo una comoda etichetta e in che modo questi due atteggiamenti influiscono sul suo modo di parlare e di vedere il mondo. Appesantirsi con i tecnicismi filosofici non è funzionale all’unico obiettivo della consulenza: l’analisi del pensiero del consultante.
Improvvisazione
Lo abbiamo appena detto: la consulenza è qui ed ora.
Nessuno sa cosa succederà nel tempo del dialogo, non ci sono copioni già scritti. I temi, i modi, le deviazioni, gli inciampi, le parole e i toni prendono corpo nel farsi della conversazione. Questo obbliga il consulente a presentarsi “nudo” (per rubare una espressione sentita usare più volte dallo psichiatra Luca Genoni in occasione degli incontri di supervisione per il master): è impossibile pianificare una sessione di consulenza nei minimi dettagli, per questo l’unico modo per non farsi trovare impreparato è non preparare troppo, non vestirsi con i panni delle proprie teorie di riferimento e non ingabbiare lo svolgersi della consulenza in tempi e passaggi troppo definiti. Con questo non voglio dire che il consulente non debba conoscere i passaggi (per esempio) di un dialogo socratico o non avere pensatori di riferimento; intendo sottolineare la necessità di non aggrapparsi a tutti i costi a queste ancore: dobbiamo esercitare quella che Campanello (2015) chiama «l’arte di togliere peso». Il consulente deve arrivare forte di tutto il suo apparato teorico ed esperienziale, che costituisce la base della sua competenza, ma deve avere la libertà di poter non usare nulla («tenerseli in tasca», dice Genoni), o di usarlo solo in parte, o di usare qualcosa di diverso da quello che immaginava. Il consulente non ha uno spartito, ma ha la libertà di improvvisare su un modello melodico-ritmico, come fa il jazzista su uno standard²⁷.
Mi piace riportare una esperienza personale, in cui questa capacità di mantenersi alla “giusta distanza” da quello che stava accadendo, per poter calibrare il proprio intervento è stata uno degli elementi centrali della consulenza: con il collega Flavio Bellin abbiamo deciso di condurre un workshop a quattro mani (o a due teste, se si preferisce) in cui l’unico elemento deciso a tavolino era l’immagine che sarebbe stata proiettata come slide di apertura dell’incontro²⁸. La novità della nostra scelta non sta nel numero di conduttori: spesso i laboratori sono condotti da due consulenti che si alternano su diverse attività, per consentire a uno dei due di ricoprire il ruolo di osservatore esterno e di uscire dall’arena dialettica e riprendere fiato. In questo caso la nostra scelta è stata quella di essere contemporaneamente impegnati sulla stessa attività con lo stesso gruppo di persone: dovendo gestire gli spazi reciproci di parola e interazione, è sorta la necessità di mantenere un’«attenzione fluttuante»²⁹ che oscillava tra i consultanti e l’altro consulente. Fermatevi un attimo e prendete un appunto mentale: “oscillazione” e “attenzione fluttuante”; ci torneremo.
Essere leggeri, non essere appesantiti da vincoli teorici e metodologici rigidi, è il presupposto per poter improvvisare, ma ciò non implica in alcun modo che il risultato della improvvisazione debba essere a sua volta “leggero”, nella accezione (anche) umoristica in cui il termine è utilizzato in questo testo. Voglio invece suggerire un legame più profondo tra improvvisazione e leggerezza che, anche quando non si risolve in una improvvisazione “divertente”, ne è il potenziale presupposto: c’è qualcosa, nell’improvvisazione, che è costitutivamente vicino all’umorismo e alla risata. Questo qualcosa è stato individuato da Luigi Pirandello nella capacità di mantenersi nel tempo straniati e consapevoli, ovvero nella capacità di oscillare tra due modi diversi dell’attenzione (visto che ci siamo tornati?), che è caratteristico dello stile umoristico, quando smette di essere solo uno stile letterario, e diventa anche un modo di vivere.
«Per Pirandello l’umorismo è un ‘sentimento del contrario’ […]. L’umorismo, in questa accezione, porta a farsi domande sulla propria posizione nel mondo. In questo senso l’ingresso di una venatura umoristica è (può essere) il pungolo verso un surplus di consapevolezza. […] Così lo stile umoristico, applicato non tanto al discorso letterario, quanto al proprio modo di vita, diventa capacità di mantenere nel tempo l’attimo di straniata consapevolezza […] Come stile dialogico, consente il ripetersi di momenti in cui gli attori del dialogo riescono a cortocircuitare tutto il complesso del collasso delle cornici in cui si trovano»³⁰.
La capacità di rimanere sospesi tra due o più cornici di senso è il meccanismo che sta alla base dell’umorismo e del comico e, al tempo stesso, è il presupposto che permette di improvvisare tanto al jazzista, quanto al consulente filosofico.
Aggiungiamo un elemento importante: quelle che Bertrando (2006) e Bateson (2006) chiamano «cornici di senso», sono delle configurazioni di modi di leggere il mondo e di modi di parlarne, legate alla contingenza della situazione ovvero ciò che Wittgenstein (1961) chiama «giochi linguistici». Un’ulteriore conferma della centralità del linguaggio a cui abbiamo già fatto riferimento.
Dissoluzione delle tensioni e delle resistenze
Siamo più o meno a metà; nel caso abbiate perso di vista l’idea base di questo scritto, la riassumo brevemente: la consulenza filosofica può essere leggera, se è leggera è possibile che, ad un certo punto della consulenza, consulente e consultante ridano, insieme.
Usciamo per un attimo dalla filosofia e entriamo nella fisiologia.
– Colonna sonora: Aria sulla quarta corda – secondo movimento della suite orchestrale n.3 in Re maggiore – di Johann Sebastian Bach³¹ –
Il riso genera un senso di sollievo perché agisce, come l’effetto placebo, sul sistema nocicettivo controllato dalla corteccia cerebrale, che attraverso la liberazione di oppiacei endogeni, chiamati endorfine, riesce a diminuire e in casi particolari ad annullare le sensazioni di dolore, ansia e angoscia. La soglia del dolore «è influenzata anche da dei processi emotivi e cognitivi della corteccia cerebrale […], molte situazioni di stress e tensione funzionano da amplificatore degli stimoli dolorosi»³².
– Fine della colonna sonora –
Togliamoci il camice e torniamo alla filosofia: durante la consulenza filosofica si toccano spesso (mi trattengo dallo scrivere “sempre”, e mi limiterò a pensarlo) temi importanti e vengono messe in discussione le idee più intime del consultante, che è chiamato allo sforzo di andare in qualche modo al di là di sé stesso. Questo può generare un senso di frustrazione, che facilmente sfocia in un aperto contrasto con il consulente. La consulenza muore sul nascere, a causa delle resistenze che il consultante oppone alla messa in questione di convinzioni così profonde e radicate da risultare costitutive della identità stessa della persona. Chi ha provato almeno una volta il metodo IPP sa di cosa parlo.
Merleau-Ponty, parlando della difesa di Socrate al suo processo, sottolinea la capacità del sorriso di sciogliere il nodo del conflitto, permettendo a chi ride di vivere nel doppio senso delle cose, e al contempo accusa la filosofia accademica di aver perso questa capacità:
«Che fare se non si può perorare né sfidare? Si può parlare in maniera da far trasparire la libertà negli sguardi, sciogliere l’odio col sorriso – una lezione per la nostra filosofia, che ha perduto il sorriso insieme al senso del tragico. È ciò che si chiama ironia. […] Accade come nella tragedia, dove gli avversari sono entrambi giustificati; la vera ironia usa un doppio senso che è fondato nelle cose»³³.
Caliamo la fisiologia e la filosofia nel concreto: il metodo IPP, lo abbiamo appena detto, genera facilmente attriti e tensioni. Per questo, durante un workshop che sarebbe stato condotto con l’impostazione Brenifier-Millon, ho scelto di introdurre come novità metodologica il ricorso a forme di interazione non puramente concettuali e linguistiche. Partendo dall’idea proposta da H. Gardner delle intelligenze multiple³⁴, il corpo è diventato uno strumento con cui pensare³⁵. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi; il primo gruppo ha estratto da un mazzo una carta con il nome di un concetto (in questo caso è stato “giustizia”) e i membri hanno avuto cinque minuti di tempo per accordarsi su come rappresentarlo con i propri corpi. Il secondo gruppo, che non sapeva che carta avessero pescato gli altri partecipanti, aveva il compito di capire quale concetto fosse stato rappresentato. Le riflessioni sulla dinamica che si è generata sono state il punto di partenza della discussione successiva.
Proporre, proprio all’inizio del workshop, ad un gruppo di persone che non si conoscevano tra di loro, arrivate con l’aspettativa di quattro ore “cerebrali”, una attività che ha messo al centro i loro corpi e li ha obbligati a interagire fisicamente, ha avuto l’effetto immediato di ridurre la tensione: i partecipanti hanno sorriso, sono entrati velocemente in confidenza e qualcuno ha commentato «ero preoccupato di essere interrogato: ero teso come quando andavo a scuola, ma così è divertente!». Spostare l’attenzione dalla mente al corpo, evitare ogni impostazione “frontale” della interazione e “giocare” con i concetti e non con le teorie ha alleggerito la sessione e ha portato i partecipanti immediatamente nel pieno delle attività.
La stessa attenzione all’umorismo e alla risata come chiave di volta per la risoluzione di momenti di tensione è data dalla PS: i formatori portano numerosi esempi di come, soprattutto in ambito sanitario, una battuta di spirito ha permesso di evitare l’escalation verso un conflitto aperto³⁶.
La ragione per cui ridere insieme permette di evitare il contrasto e allevia la tensione è profonda e i collaboratori della PS, che basano buona parte delle loro tecniche sul pensiero di Bateson, la conoscono bene: se il meccanismo base che genera la risata è l’oscillazione tra due cornici di senso, per poter ridere insieme è necessario prima individuare o costruire il terreno comune di queste cornici di senso. Per poter ridere, in altre parole, è necessario essere d’accordo su alcuni presupposti base. E se siamo d’accordo, il conflitto non ha più senso.
La presenza di questo accordo profondo ci permette di affrontare un ulteriore aspetto che caratterizza l’approccio leggero alla consulenza.
Indicatore di un accordo
Riuscire a ridere insieme, a sdrammatizzare una situazione o un contenuto richiede, prima di tutto, la presenza di un terreno comune: è facile far ridere un amico, perché sappiamo già cosa trova divertente e lo sappiamo perché abbiamo condiviso con lui tempo ed esperienze; gli inside jokes funzionano solo all’interno di contesti ristretti (tra colleghi, ad esempio, che condividono un linguaggio tecnico e conoscenze specifiche). Le battute, non dimentichiamolo, fanno ridere finché non sono spiegate, cioè finché una parte del terreno comune su cui si basano non viene esplicitata.
La battuta di spirito, il gioco di parole, la risata condivisa, in altre parole, sono indicatori di un accordo profondo a livello delle premesse non dette della comunicazione. Visto che la consulenza filosofica va ad esplicitare e a lavorare proprio su queste premesse, la risata diventa indicatore di un accordo pre-razionale che prepara la strada per il lavoro esplicito successivo.
«Ecco la questione che mi interessa: non tanto il significato del riso, quanto la possibilità di usarlo come indicatore. […] [C]’è un’utilità nelle barzellette e negli scherzi che fanno ridere, perché la battuta instaura un tipo di relazione in cui il gioco non è pericoloso. […] [C]’è sempre un qualche rimaneggiamento del problema o una sua riformulazione in termini diversi, […]. C’è il doppio ruolo delle barzellette e degli scherzi: da un lato una riorganizzazione all’interno della persona, dall’altro una riorganizzazione del rapporto fra le persone»³⁷.
Lavorare direttamente sulle premesse, senza averle prima “smosse” attraverso l’umorismo e la risata può risultare più difficile. La PS individua nel meccanismo CRG³⁸ – Calibrazione, Ricalco e Guida – la leva fondamentale per entrare in sintonia con l’interlocutore e giungere ad un accordo: per poter arrivare alla fase di Guida, in cui «cominciamo a veicolare nostre idee»³⁹ è necessario, prima, studiare il nostro interlocutore attraverso l’ascolto del suo linguaggio (che veicola il suo stile espressivo, ma anche i suoi contenuti di pensiero) per poterci calibrare sulla sua postura; solo dopo questa fase sarà possibile rispecchiare all’interlocutore il suo atteggiamento, per «creare empatia, dimostrando interesse per il suo punto di vista e per il suo modello mentale»⁴⁰.
In altre parole la Calibrazione e il Ricalco sono la ricognizione e la costruzione di un terreno comune, non esplicito, che è la base per la nascita di un nuovo terreno comune e questo movimento del pensiero somiglia molto a quello che si propone di fare la consulenza filosofica: individuare le premesse implicite e “smuoverle”, per giungere ad una visione del mondo nuova e più ricca. Un interlocutore “agganciato” dalla Calibrazione e dal Ricalco sarà un interlocutore, quindi, con il quale abbiamo stabilito quel background comune che ci permetterà di ridere insieme: la battuta “leggera” diventa il sintomo dell’effettivo ingaggio di due persone in una relazione aperta a nuovi stimoli, perché forte di basi condivise.
In chiusura del testo di Bateson (2006), Paolo Bertrando riflette sulla capacità dell’ironia e dell’umorismo di agire proprio su questo retroterra non esplicito e spesso non consapevole.
«Proviamo a spostarci leggermente, e a vedere la possibilità che l’umorismo non sia uno strumento, ma un carattere del dialogo terapeutico. Si tratterebbe, allora, di adottare un’impostazione del dialogo – da parte del terapeuta – che contenga elementi umoristici […] [L]’ironia (socratica) è una costante messa in discussione dei valori dati, delle convenzioni accettate. Ci sono somiglianze fra una tale ironia e l’umorismo: la perplessità pirandelliana, lo stato d’indecisione. L’ironia rinvia sempre a qualcos’altro. È, allo steso tempo, consapevolezza delle convenzioni, di ciò che diamo per scontato nel nostro discorso; l’idea che ci sia qualcosa al di là del discorso; e dell’impossibilità, nonostante tutto, di uscire dal discorso»⁴¹.
Le parole di Bertrando si riferiscono alla psicoterapia, eppure, i riferimenti all’ironia socratica, al discorso sui valori e sulle convenzioni, alla presa di consapevolezza delle convenzioni entro le quali si muove il nostro discorso e, di nuovo, alla centralità del linguaggio su cui ci siamo già concentrati, ci fanno sentire pienamente autorizzati a cancellare le parole “terapeutico” e “terapeuta” e a sostituirle con “filosofico” e “filosofo”.
Risultato
La leggerezza sta prima della consulenza, nell’approccio alla tradizione filosofica che il consulente conosce, ma verso la quale non è deferente; la ritroviamo all’inizio della consulenza, con la sua capacità di creare una empatia immediata ed eliminare le resistenze del consultante; vive durante la consulenza, come presupposto per la capacità del consulente di adattarsi al fluire della conversazione senza imbrigliarla in schemi rigidi e come indicatore del buon svolgimento della consulenza stessa. Perché non dovremmo trovarla anche alla fine della nostra esplorazione di quel territorio di cui stiamo cercando di disegnare una mappa?
Partiamo dalla presa d’atto di qualcosa che accade al termine di molte sessioni di consulenza filosofica, sia di gruppo che singole: molti consultanti affermano di sentirsi più leggeri, di aver ridato il giusto peso⁴² alle cose o di essersi tolti un peso.
Ecco che la leggerezza diventa anche il risultato della consulenza che non sminuisce il problema, non lo risolve, ma lo dissolve, rendendolo così più leggero e quindi più operativo, più trattabile.
Il tempo dedicato alla riflessione è un tempo in apparenza sottratto alla vita attiva, è una parentesi “fuori dal mondo”; in realtà si rivela essere un attimo di sospensione (superfluo sottolineare che si resta sospesi più facilmente se si è leggeri) in cui ci si ricorda di vivere e ci si confronta con il proprio modo di vivere e leggere il mondo, in cui si è più che mai liberi di scegliere e di uscire dal loop dell’autocommiserazione di chi si prende troppo sul serio.
Montaigne vede nel sorriso di Socrate il risultato di una vita vissuta con vera saggezza:
«Mi piace una saggezza gaia e urbana e fuggo la durezza dei costumi e l’austerità, avendo in sospetto ogni cipiglio arcigno […]. Socrate ebbe un volto composto, ma sereno e ridente, non composto come il vecchio Crasso che non fu mai visto ridere. […] [I]o aborro uno spirito irritabile e triste che scivola sopra i piaceri della vita e si aggrappa e si pasce nelle sventure»⁴³.
Il punto fondamentale è avere chiaro che l’esito della consulenza non è necessariamente la soluzione di un problema, che passa attraverso la rimozione delle sue cause o dei suoi effetti, così come un farmaco guarisce un malato⁴⁴. La filosofia è il luogo in cui le contraddizioni sono vissute fino in fondo, in cui i pro e i contro sono pesati e confrontati con l’obiettivo di com-prenderli meglio con uno sguardo nuovo, posto ad un livello che ci piace pensare sia più alto, più consapevole. Allo stesso modo l’umorismo e la risata possono nascere solo quando una persona è in grado di vedere con un unico colpo d’occhio più livelli di realtà e di discorso:
«Così c’è un aumento di autoconsapevolezza, ma non c’è né apprendimento, né risoluzione di problemi. C’è accettazione di questi livelli e del proprio modo di starci, e forse sta proprio qui la vera somiglianza tra psicoterapia e umorismo»⁴⁵.
Anche in questo caso sentiamoci autorizzati a piegare il discorso di Bertrando alle nostre esigenze e sostituiamo “psicoterapia” con “filosofia” o “consulenza filosofica”: la saggezza gaia e urbana desiderata da Montaigne è data dalla consapevolezza che piaceri e sventure sono entrambi elementi necessari nella vita di ogni persona, che la pretesa di risolvere la tensione tra questi due elementi a favore del piacere è destinata al fallimento e, dunque, a far prevalere il dolore. La saggezza diventa quindi la capacità di stare nel problema, individuando e riconoscendo il proprio modo specifico di vivere quella tensione, che una volta vista dall’alto al termine del processo, risulta meno pesante e, persino, ci fa sorridere.
La pesantezza
Lo abbiamo ripetuto fino ad ora, la filosofia vive nei contrasti e, come sostiene Merleau-Ponty, «il filosofo si riconosce dal fatto che egli ha, inseparabilmente, il gusto dell’evidenza e il senso dell’ambiguità»⁴⁶; proprio per questo non possiamo esimerci dal trattare il tema speculare alla leggerezza: la pesantezza.
Il focus di queste pagine, però, non è cambiato: non dedicheremo lo stesso spazio e non approfondiremo dal punto di vista teorico il tema della pesantezza, quanto abbiamo fatto con la leggerezza. La nostra sarà un’analisi esperienziale che prende le mosse da quanto osservato durante le attività dell’IPP.
Lo scopo è ricordare che la proposta teorica e metodologica che ho avanzato in queste pagine non ha la pretesa di rivoluzionare o soppiantare gli altri metodi: esistono forme di consulenza filosofica che fanno a meno della leggerezza, ma non per questo sono meno efficaci. La consulenza filosofica “leggera” si affianca a questi approcci o, semplicemente, si può immaginare di inserire elementi di leggerezza in pratiche già strutturate che non la prevedono in modo esplicito.
Torniamo all’IPP. Il metodo Brenifier-Millon si ispira in modo diretto a Socrate⁴⁷, ha una vena fortemente critica e, per stessa ammissione dei fondatori, tende a essere frustrante per il consultante: visto che «il dialogo filosofico non è il luogo appropriato per lo sfogo intimo o per la chiacchiera informale»⁴⁸, l’interlocutore viene spesso interrotto dal filosofo e richiamato a una stretta adesione alle consegne e al tema del dialogo.
Il discorso viene bloccato spesso e ogni termine o affermazione vengono sottoposti al vaglio dei dialoganti (che si tratti di un incontro a due o di un laboratorio di gruppo): la conseguenza di questo modo di procedere è una lentezza a volte esasperante che però aiuta a individuare incongruenze nel modo di utilizzare le parole e, di conseguenza, nel modo di pensare.
Da qui un’ulteriore frustrazione per il consultante che, messo alle strette sul significato delle proprie parole, si sente spesso tradito da queste («non era quello che intendevo», ripete spesso) e viene poi messo di fronte a quella che Brenifier definisce «frustrazione dell’essere»⁴⁹: scopre di non essere quello che credeva, una volta spogliato delle verità illusorie con le quali ha coperto sé stesso, la sua esistenza e il suo intelletto, in modo spesso inconsapevole.
Solo a questo punto, una volta tolto il velo delle illusioni⁵⁰, il consultante avrà realizzato la massima apollinea del γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso) e sarà nelle condizioni, se lo vorrà, di mettere in moto un processo di cambiamento.
Brenifier, per descrivere gli effetti della consulenza sulle persone che si rivolgono a lui, fa proprie le parole di Schopenhauer:
«La maggior parte delle persone è così soggettiva che in fondo non prova interesse per altro che per sé stessa. […] Perciò si distraggono tanto facilmente ed è così facile ferirli, offenderli, mortificarli che quando si parla con loro, anche nel modo più obiettivo, di qualunque cosa, non si sta mai abbastanza in guardia per evitare possibili riferimenti che potrebbero risultare urtanti per il loro prezioso e delicato ‘io’»⁵¹.
Per nulla leggero, ma senza dubbio efficace, visto il successo riscosso da questo metodo.
Conclusioni
Abbiamo tracciato le linee fondamentali della mappa del territorio che stiamo esplorando; non è una mappa dettagliata, ma aiuta ad orientarsi e abbozza un sentiero da cui partire per potersi addentrare più a fondo in questa regione del pensiero.
La cornice dentro la quale ci siamo mossi è quella del linguaggio, inteso come la base entro la quale si formano gli orizzonti di senso soggettivi e sociali che definiscono la realtà interpretata dagli uomini, «soggettivamente significativa per loro come un mondo coerente»⁵². Accanto alla realtà socialmente condivisa della vita ordinaria, si alternano enclavi definibili «sfere limitate di significato»⁵³, aventi un proprio tono di realtà: un insieme di paradigmi ermeneutici che sono applicati al mondo che ci circonda.
L’interfaccia tra queste sfere di significato, i loro rapporti reciproci e la Weltanschauung generata dalla loro totalità sono il terreno su cui la consulenza filosofica lavora. Toccare e a volte scardinare idee profonde, di cui spesso il consultante è inconsapevole, genera stress e resistenze. Per questo lo stile con cui ci si relaziona con gli ospiti non è indifferente.
La proposta che avanzo è quella di affrontare le questioni che si pongono durante la consulenza con leggerezza, intesa come (1) un approccio poco accademico e più giocoso alla tradizione filosofica, (2) capacità di improvvisare, di liberarsi da schemi metodologici o contenutistici stringenti per potersi adattare alla situazione concreta, (3) focalizzazione sugli aspetti comici o umoristici della situazione, per (3.1) sciogliere tensioni e resistenze, (3.2) ricavarne indizi di un accordo profondo sui presupposti della conversazione, (3.3) portare il consultante nella condizione di poter stare-nel-problema.
Gli ultimi due punti (3.2 e 3.3) sono quelli in cui è più evidente la prossimità tra la filosofia e il meccanismo alla base della risata: Francis Hutcheson⁵⁴ definisce il riso, correlato fisiologico della percezione del comico, come la risposta alla percezione di qualcosa di incongruo, qualcosa che avviene al di fuori di una particolare visione del mondo⁵⁵. La consulenza filosofica, lavorando con diverse concezioni del mondo, porta consulente e consultante ad oscillare insieme tra diverse cornici di senso, obbligandoli a quella che Campanello (2015) definisce «operazione funambolica»: la sospensione tra due dimensioni inconciliabili e al tempo stesso in continuo dialogo tra di loro.
Per questo la leggerezza filosofica non è mai superficiale, ma è strettamente legata al senso del tragico: è la compresenza simultanea di due istanze, opposte e inconciliabili. È la crisi senza soluzione che solo con la leggerezza può essere sublimata nella risata:
«La coscienza tragica non è un assistere indifferente, soltanto intellettivo. È un prendere conoscenza, in cui io stesso mi trasformo, secondo il quale credo d’intendere, con il quale guardo e sento. Attraverso questo intendere avviene una trasformazione nell’uomo»⁵⁶.
Concludo riproponendo un gioco che abbiamo già fatto altre due volte: leggiamo il prezioso saggio di Bertrando e sostituiamo “psicoterapia” e “terapia” con “consulenza filosofica” o “filosofia”.
«[N]ell’umorismo, come nella terapia, siamo di fronte ad un emergere di paradossi relazionali, a un collasso delle cornici che reggono – in genere – le nostre convenzioni. […] La psicoterapia può essere definita come una serie di interazioni incorniciate dal metamessaggio ‘questa è una psicoterapia’. O, in altri termini, è psicoterapia quella che due o più persone che vi partecipano concordano nel definire psicoterapia. Il messaggio ‘questa è una psicoterapia’ fa parte integrante del processo. […] Anche l’umorismo è qualificato da un metamessaggio di gioco, che crea una condizione paradossale, perché qualifica ciò che avviene come qualcosa di esterno alla realtà, mentre, al tempo stesso, lo scambio si trova all’interno della realtà condivisa»⁵⁷.
Lascio al Lettore, che ha ormai familiarizzato con la questione, il piacere delle proprie conclusioni.
Filosofia e social network: il luogo della leggerezza (bonus track)
Dopo aver concluso, mi resta sulla punta delle dita ancora una riflessione, nata dall’esigenza di dare concretezza alle riflessioni teoriche delle pagine precedenti e dall’urgenza che la filosofia ha di confrontarsi con un tema ormai inevitabile: i social network.
L’ineluttabilità della questione è duplice: da un lato la filosofia, in quanto luogo della riflessione sul mondo, deve prendere in esame questo nuovo spazio di relazione tra gli esseri umani dove prendono forma visioni della realtà e nascono nuovi oggetti teoretici; dall’altro lato se la filosofia vuole essere una professione deve, con ancora maggiore urgenza, riflettere sulle opportunità che le piattaforme di social networking offrono e sugli inevitabili rischi a cui si espone, affacciandosi impreparata su questo mondo.
Il punto principale, che intendo evidenziare qui, è la postura base che caratterizza le interazioni sui social. Sono essenzialmente due i toni che delineano gli stili comunicativi degli utenti: l’humour o la polemica. Tertium non datur: ogni tentativo di impostare la comunicazione su un piano diverso è destinato a sfociare in uno di questi due estremi. A volte i due approcci si intrecciano nei commenti ai post più popolari. Bisogna inoltre ricordare che, come ogni contesto linguistico, anche il web ha i suoi “giochi” e, per fare umorismo, bisogna seguire regole e stilemi ben definiti: ciò che fa ridere in una conversazione al bar non smuove una risata su Facebook e i social si alimentano di contenuti virali che nella maggior parte dei casi non escono dal circuito web. La leggerezza è una delle due cifre stilistiche dominanti sui social, ma segue regole specifiche: se non si conoscono queste regole o si cerca volutamente di forzarle per evitare la leggerezza e proporre contenuti troppo “pesanti”, l’unica alternativa che i social offrono è l’aggressività⁵⁸.
Offro come spunto, ancora una volta, l’esperienza di collaborazione con l’IPP, in particolare con il gruppo italiano dell’IPP, che gestisce una pagina Facebook chiamata “Filosofo Tascabile”, che è al tempo stesso vetrina delle attività proposte dal gruppo e luogo di discussione filosofica.
La pagina Facebook del “Filosofo Tascabile” si presenta, da subito, come una raccolta eterogenea di immagini e testi, che tradisce una gestione dei contenuti a più mani.
Il compito dell’aspirante Filosofo Tascabile (in questo caso, il mio compito) era quello di scrivere un post da pubblicare in bacheca (non entro qui nei tecnicismi delle diverse sezioni di una pagina Facebook) composto da una immagine e da un testo coerenti tra di loro, che catalizzasse la discussione attorno ad un tema filosofico.
Una volta avviata la discussione, il Filosofo-Pochette avrebbe dovuto stimolarla e rilanciarla. Dico “avrebbe dovuto” perché, nei fatti, nessuna discussione ha preso le mosse da un post Facebook. Sgombriamo subito il campo dalle velleità filosofiche 3.0: i social NON sono il luogo per fare filosofia. Le poche interazioni con i post pubblicati sono state sconnesse, sconclusionate, sconsiderate e se mi venisse un altro aggettivo negativo con la radice “scon-” lo userei senza dubbio. Sconcertanti, ecco.
Potenzialmente il mezzo sembra offrire grandi opportunità: il vasto pubblico e la diffusione capillare sono i punti di forza più superficiali; il vantaggio più profondo consiste nel fatto che i social impongono di condensare il proprio pensiero in poche righe e questo sembra rispondere perfettamente a quella esigenza di concisione e chiarezza che il “discorso interrotto” socratico promuove come antidoto alla “chiacchiera”; inoltre la possibilità di rispondere in tempi brevi ai commenti replica la dinamica dialogica, habitat naturale in cui il Filosofo Pratico si nutre e nidifica.
Il sogno di un’Agorà telematica si interrompe bruscamente e a suonare sono ben tre sveglie:
1. l’abitudine di leggere i contenuti in modo superficiale: non c’è spazio per argomentazioni strutturate e, molto spesso, il contenuto concettuale è travisato completamente;
2. l’attitudine polemica degli utenti che, anche quando non sono litigiosi nella “vita reale”, si aspettano una interazione di questo tipo sul web e interpretano le parole a cui manca intonazione e prossemica, alla luce di una presupposta vis belligerante. A cui rispondono a tono;
3. il sovraccarico di pagine, immagini e stimoli presenti sulla piattaforma: il motto di Berkeley “esse est percipi” vale ancora di più sulla rete. Un contenuto che non è visto non esiste: è necessario uno sforzo di marketing, che va dalla promozione della pagina, alla definizione di criteri redazionali del post, a cui il Filosofo Tascabile (la maggior parte dei filosofi, direi) non è pronto. Almeno finché non si insegnerà marketing nelle facoltà di filosofia. Ci arriveremo, forse.
Proprio qui però si nasconde la grande opportunità che offrono le piattaforme social: non sono luoghi in cui fare filosofia, ma sono perfetti per promuovere la filosofia. E, riprendo a margine (ma solo per farlo notare di più): una delle grandi Chiavi di Volta del Marketing è saper trattare le cose con leggerezza.
«Veniamo ora alla citazione degli autori che negli altri libri si trovano e nel vostro libro mancano. Il rimedio è facile: voi non dovete fare altro che pigliare un libro che li citi tutti dalla A alla Z, come dite voi, e riprodurre questo elenco alfabetico nel vostro libro. Anche se si vedrà chiaramente l’inganno per la poca utilità che potevate avere a servirvene, non importa nulla: chissà se non vi sia qualcuno tanto ingenuo che creda davvero che voi li abbiate consultati tutti nella vostra storia così semplice e alla buona».
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, prologo
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¹ “Nos problèmes sont trop graves pour être abandonnés à l’esprit de sérieux”. Citton (2018), traduzione mia.
² L’Autore parte dal forte presupposto (uno dei tanti, in queste pagine) che, se state leggendo queste righe, siete un Filosofo, o un filosofo, o almeno ne conoscete uno. Presumibilmente l’Autore o un Amico dell’Autore.
³ Campanile, A., Tragedie in due battute, Rizzoli, Milano 1978.
⁴ Hadot (1988) descrive lo scollamento della filosofia dalla vita delle persone, condensando così 2500 anni di storia della filosofia: “Ricordiamo brevemente come sia nata questa rappresentazione: sembra proprio che sia il risultato dell’assorbimento della φιλοσοφία da parte del cristianesimo. […] La teologia ha preso coscienza dell’autonomia posseduta in quanto scienza suprema, mentre la filosofia, svuotata degli esercizi spirituali che facevano ormai parte della mistica e della morale cristiane, è stata ridotta al rango di un’ancilla theologiae che fornisce a quest’ultima un materiale concettuale, dunque puramente teorico. Quando, nell’epoca moderna, la filosofia ha riconquistato la propria autonomia, ha nondimeno conservato molti tratti ereditati dalla concezione medievale, e specialmente il suo carattere puramente teorico, che è persino evoluto nel senso di una sistematizzazione più spinta”. Hadot (1988), p. 67.
Questa impressione è confermata da Brenifier (2015), p. 35: “[…] sebbene la filosofia classica dei sistemi si trovi un po’ disorientata alla fine del XIX secolo, ancora continua ad essere un’attività erudita ed elitaria dominata dalla priorità del concetto e dell’astrazione”.
⁵ Cfr. nota 2 qui sopra: visto quanti presupposti?
⁶ www.pratiques-philosophiques.com.
⁷ I corsi di formazione si “frequentano” e normalmente si parla di “frequenza al corso”. Nel caso della Palestra della Scrittura si deve parlare di “frequentazione”, vista l’impostazione colloquiale, aperta al dialogo e “amicale” dei loro formatori.
⁸ Il jazz, come metafora della consulenza e della leggerezza, ci sarà spesso utile (Sparti 2015, 2017).
⁹ Campanello (2015), p. 23.
¹⁰ “La leggerezza ha a che fare indubbiamente con la felicità e la felicità ha a che fare inevitabilmente con il modo di vivere che abbiamo, con la maniera di vivere il mondo e di abitarlo”. Ibidem.
¹¹ Ivi, p. 29.
¹² Per amore di argomentazione ho esagerato: Campanello (2015) non scarta in toto questo aspetto della leggerezza: individua l’ironia come “una maniera per alleggerire e aprire la realtà, sovvertendola, giocandoci, non prendendola troppo sul serio nella sua materialità che pare incontrovertibile, ma spostando lo sguardo e assumendo capacità e possibilità di nuove visioni delle cose”, e ancora suggerisce di “ridere, liberarsi dal peso e dalle tensioni con una risata, prendere le cose non sempre e non troppo sul serio” (pp. 40-41). Resta il fatto, però, che in tutta la sua trattazione questa accezione è marginale.
¹³ Ivi, p. 30.
¹⁴ Merleau-Ponty (1953), p. 62.
¹⁵ Vi risparmio le riflessioni di N. Chomsky, R. Jackendoff, S. Pinker sull’origine “interna” del linguaggio, ma sappiate che ci sono. E sono convincenti. L’idea fondamentale è che il linguaggio non sia nato come mezzo di comunicazione intersoggettiva, ma che la sua funzione originaria fosse quella di organizzatore “interno” dei pensieri del soggetto. L’evoluzione, premiando quei soggetti in grado di portare all’esterno e condividere i propri pensieri, ha diffuso la capacità di comunicare attraverso un linguaggio nato solo per pensare.
¹⁶ Wittgenstein (1953), § 116.
¹⁷ www.palestradellascrittura.it.
¹⁸ Wittgenstein (1961), p. 88.
¹⁹ Wittgenstein (1953), Parte I, § 96, p. 62. In questo particolare paragrafo è molto evidente l’equivalenza fra l’aspetto linguistico del pensiero e la costituzione di come guardiamo al mondo. Da notare il modo in cui Wittgenstein mette in fila queste parole: il pensiero e il linguaggio vengono messi prima della parola “mondo”.
²⁰ Jaspers (1952), p. 11.
²¹ Bateson (2006), p. 13.
²² Achenbach (1987) p. 49.
²³ Ivi, p. 22.
²⁴ Ivi, p. 47, corsivo mio.
²⁵ Blumenberg, H., Der Sturz des Protophilosophen. Zur Komik der reinen Theorie, anhand einer Rezeptionsgeschichte der Thales-Anekdote, in Das Komische (Poetik und Hermeneutik, vol. VII), Fink, München 1976, pp. 11-64.
²⁶ Non gli interessa nemmeno sapere che sono esistiti questi due tizi!
²⁷ Sparti (2017).
²⁸ L’immagine (una matita infilata in un bicchiere pieno d’acqua che sembra spezzata), a sua volta, era stata scelta con il congruo anticipo di circa 20 minuti, ispirati dalla descrizione dell’atteggiamento del realista ingenuo in Wouters (1999), e in ogni caso è irrilevante, visto che non è stata mai citata o utilizzata durante lo svolgersi della consulenza: l’unico elemento pre-definito è stato completamente ignorato durante una sessione di 3 ore che si è sviluppata solamente sulla base di ciò che è accaduto durante il workshop stesso.
²⁹ Sparti (2017) descrive così l’atteggiamento dei ballerini di tango, mentre improvvisano i loro movimenti in una milonga: “Chi balla il tango [a]lterna un’attenzione telescopica che abbraccia la sala da ballo nel suo complesso, e la ronda che in essa si muove, ad una micro-attenzione diretta ad aspetti specifici, per esempio allo spazio sferico intorno alla coppia, la bolla entro la quale chi balla si muove” (p. 139). I due consulenti che conducono insieme un laboratorio devono, allo stesso tempo, aprirsi al gruppo e focalizzarsi sui dettagli dell’interazione con il collega.
“Improvvisare implica infatti non tanto intenzione […] quanto attenzione, la capacità di esporsi alla musica in modo tale da rispondere creativamente alle situazioni che via via si delineano, reagendo ai cambiamenti introdotti nel corso della musica”. Sparti (2015), pp. 152-153.
³⁰ Bertrando (2006), p. 171, sottolineatura mia.
³¹ La sigla di Quark.
³² Gallucci (2002), p. 193.
³³ Maurice Merleau-Ponty (1953), p. 44, corsivi miei.
³⁴ Gardner, H. (1987), Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano.
³⁵ “Sappiamo ormai, soprattutto grazie a dei fenomenologi come Husserl o Merleau-Ponty, che noi siamo dei ‘corpi intelligenti’: la sensibilità è diventata una percezione. Noi abbiamo una intelligenza del mondo, scrive Merleau-Ponty, perché i nostri corpi sono presi nel ‘tessuto del mondo’: è a partire da questo ‘essere al mondo’ che si dispiega la nostra percezione. La nostra sensibilità non è più una debolezza, ma una forza”. Charles Pépin, La sensibilité est-elle une faiblesse?, in Philomagazine, 123, ottobre 2018, p. 8, traduzione mia.
³⁶ Lucchini (2012).
³⁷ Bateson (2006), pp. 46-47.
³⁸ Questa tecnica di creazione del consenso è talmente centrale negli interventi formativi della Palestra che possiamo trovarla, formalizzata in modi molto simili in Lucchini (2012, 2017) e Carmassi, Lucchini (2015).
³⁹ Lucchini (2012), p. 199.
⁴⁰ Ibidem.
⁴¹ Bertrando (2006), pp. 176-177.
⁴² Campanello (2015) p. 83.
⁴³ De Montaigne (2002), p. 1114 sgg.
⁴⁴ “La filosofia ci risveglia a ciò che l’esistenza del mondo e la nostra hanno di problematico in sé, al punto da distoglierci per sempre dal cercare una soluzione”. Merleau-Ponty (1953), p. 49.
⁴⁵ Bertrando (2006), p. 169.
⁴⁶ Merleau-Ponty (1953), p. 12.
⁴⁷ Il titolo dell’opera di Brenifier (2015), Filosofare come Socrate, è un’ammissione di colpevolezza.
A questo aggiungiamo, come esempio della pervasività della figura di Socrate nella pratica di Brenifier (e di molte altre pratiche filosofiche), che tre cardini della pratica sono lo specchio dei tre tipi di accusa (ivi, p. 17) che venivano rivolti a Socrate:
– “Taglia il mio discorso in parti, lo spezza”: individuazione dei punti chiave;
– “Mi fa dire cose che non volevo dire”: analisi dei presupposti impliciti e delle opinioni esplicite nel discorso;
– “Non mi rispetta”: superamento delle opinioni.
⁴⁸ Brenifier (2015), p. 45.
⁴⁹ Ibidem.
⁵⁰ Risuona forte il richiamo al Velo di Maya, che Schopenhauer invita a togliere per raggiungere la Verità della cosa in sé. E non è un caso se ἀλήθεια è la verità, appunto, dis-velata su cui riflette a lungo Heidegger (La dottrina di Platone sulla verità, SEI, Torino, 1975, pp. 48-50).
⁵¹ Schopenhauer (1994), p. 190.
⁵² Berger, Luckmann (1969), p. 39.
⁵³ Schütz (1945).
⁵⁴ Hutcheson (1750).
⁵⁵ “[…] [L]’incongruenza di base dell’esperienza del comico è radicata in una realtà antropologica che va al di là di qualsiasi variazione sociale. In quanto tale ovviamente è universale (o, se si preferisce, è una costante transculturale)”. Berger (1999).
⁵⁶ Jaspers (1952), p. 55.
⁵⁷ Bertrando (2006).
⁵⁸ Interessanti, a riguardo, le analisi di Langton (2018) sull’aggressività linguistica nei social network e di Labinaz, Sbisà (2017) sulla credibilità e disseminazione di conoscenze nei social network.